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Cop 21 – Un accordo storico?

Si è conclusa a Parigi la Conferenza mondiale sul clima che si poneva il principale obiettivo di contenere l’aumento della temperatura terrestre, da qui a fine secolo, entro i 2 gradi. Già su questo notiamo il primo passo falso: l’accordo parla infatti di “sforzarsi di limitare l’aumento a 1,5 gradi”.

La Conferenza ha deluso le aspettative degli ambientalisti per l’incapacità dei governi di sciogliere i nodi relativi agli impegni delle singole nazioni e al sostegno finanziario per i paesi in via di sviluppo.

Non ci saranno impegni vincolanti né sulla legislazione, né sulle ripartizioni dei finanziamenti (figuriamoci parlare di sanzioni!). Al di là dei proclami solenni, tutto è lasciato alla buona volontà dei singoli governi. L’ennesimo nulla di fatto dunque come per tutte le altre conferenze sul clima dal 1992 ad oggi.

Del resto la massiccia ripresa delle estrazioni dei combustibili fossili in atto su scala globale svuota nei fatti i contenuti della conferenza. È indicativo che in pagine diverse dello stesso quotidiano si possa leggere dei pericoli legati al cambiamento climatico e al contempo dell’azione, di stampo reazionario, che il Governo Renzi sta operando per impedire lo svolgimento del referendum contro le trivellazioni.

Vi sono poi diversi interrogativi che la Conferenza non ha affrontato. Emblematico quello di una possibile convergenza tra lobby del petrolio e costruttori di grandi dighe.

Dal 1950 le grandi dighe sono passate da 5000 a circa 45.000, si stima che complessivamente immagazzinino una quantità d’acqua pari al 15% della riserva idrica rinnovabile ed alcuni esperti si interrogano sull’entità di un possibile effetto di compensazione rispetto all’innalzamento marino.

Questa questione non è secondaria; infatti, se il mare salisse tanto rapidamente da minacciare la città di New York, la popolazione insorgerebbe contro le lobby del petrolio che dettano legge al Congresso americano e che stanno impedendo l’approvazione di quel minimo di impegni presi da Obama a Parigi a favore delle rinnovabili. Le grandi dighe, prosciugando interi fiumi, rallentano questo innalzamento, a vantaggio dei residenti nelle zone costiere, ma ai danni di intere popolazioni a cui vengono sottratti territori e risorse.

Per rallentare l’innalzamento del mare ci sono alternative: torri di distillazione, a solare, di acque marine per irrigare con le acque distillate ottenute. Ma tutto ciò significa un piano gigantesco di investimenti.

In ultima analisi inquinare di meno significa produrre meno o investire in nuove tecnologie per ridurre le emissioni: per le grandi multinazionali questo comporta minori profitti. In un periodo di crisi del capitalismo, ciò significherebbe l’uscita dai mercati e nessun capitalista si assumererebbe mai questa scelta.

L’infruttuosità di questa, come delle precedenti Conferenze, mette in luce i limiti dell’ambientalismo riformista che ottiene risultati (molto parziali) laddove si tratta di orientare l’azione dei cittadini e delle pubbliche amministrazioni, come per la raccolta differenziata, ma non riesce a conseguirne laddove occorre intervenire su fattori strutturali.

Coglie nel segno la dichiarazione di Morales: “Per salvare il clima bisogna sradicare il capitalismo” ed infatti, come scritto da Ted Grant e Alan Woods: “Lo sviluppo di una fonte alternativa non rientra negli interessi dei grandi monopoli del petrolio.”

Per “salvare il pianeta” occorrerebbe un nuovo tipo di ambientalismo, che leghi la difesa dell’ambiente alle lotte del movimento operaio, sulla base della riconversione delle fabbriche inquinanti e l’utilizzo di nuove fonti energetiche. Ciò è incompatibile con i profitti delle grandi multinazionali, ed ecco perché la difesa del nostro pianeta è una lotta rivoluzionaria, una lotta per la trasformazione socialista della società.

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