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Conte getta la maschera – Il decreto del 26 aprile sulla “fase 2”

Con il Dpcm del 26 aprile e la relativa conferenza, Conte e il suo governo sono definitivamente a nudo. La cosiddetta “fase 2” non è la vittoria sul contagio, è la vittoria di Confindustria.

Fino alla scorsa settimana, il governo poteva ammantarsi della retorica dello sforzo comune, del siamo tutti nella stessa barca, della nazione che si stringe per combattere il pericolo sanitario. Anche i decreti precedenti erano un colabrodo: tra autocertificazioni, cambi di codici ateco e sotterfugi vari, decine di migliaia di aziende non essenziali hanno continuato a produrre, con la compiacente collaborazione dei prefetti.

Ora però le cose cambiano. Fabbriche, uffici, servizi, riaprono tutti il 4 maggio e alcuni hanno anticipato. È la vittoria di quegli stessi che hanno voluto ad ogni costo impedire le zone rosse in Lombardia, contribuendo in maniera determinante a una vera e propria strage.

Ci sono motivi sanitari che giustificano questa svolta? No, nel modo più assoluto. In 7 regioni il contagio è ancora in espansione: Piemonte, Lombardia, Liguria, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Puglia, Marche. I morti si contano a una media di oltre 400 al giorno, i nuovi contagi (quelli registrati dai tamponi, che sappiamo essere una piccola minoranza dei casi reali) a oltre 2000, ben più di quanti fossero l’8 marzo, giorno del primo decreto di chiusura.

Lo diciamo chiaro e forte: con questa misura il governo rende concreto il pericolo di una risalita del contagio già nel giro di qualche settimana. Lo denunciano virologi come Crisanti (Veneto), ma incredibilmente lo stesso Conte lo ha dichiarato nella conferenza stampa.

Andate a lavorare e poi se volete bene all’Italia restate a casa. Questo il succo delle sue dichiarazioni. Il distanziamento sociale, ha detto, è l’unica arma che abbiamo contro il virus.

È una scelta criminale che cerca di fare leva sulla pressione economica, sui disagi della reclusione, sull’esasperazione di alcuni settori della popolazione per aprire garantire che i padroni possano ricominciare a macinare produzione e profitti.

Sulla scia di Confindustria si gettano le associazioni dei commercianti, chiedendo a loro volta la riapertura e si capisce: i piccoli esercenti pagano un prezzo alto al lockdown, ma è una illusione che la riapertura precoce possa aiutarli a risollevarsi. Anche nella fase 2 la gente non si affollerà certo in bar e locali, sia per la paura perdurante del contagio, sia per la inevitabile riduzione dei consumi non essenziali. La tutela, che condividiamo, della sopravvivenza economica delle piccole attività non può che passare da un serio sostegno pubblico. Ci sono grandi aziende (grande distribuzione, commercio online, ecc.) che non solo non perdono, ma guadagnano dall’attuale situazione, e non contribuiscono neppure per una lira a sostenere l’emergenza: è da lì che si deve cominciare a prendere le risorse per sostenere le fasce della popolazione in difficoltà: precari, lavoratori autonomi, disoccupati.

Il Dpcm ha assorbito integralmente il protocollo firmato tra sindacati e imprese il 24 aprile. Con questo passo si certifica che il sindacato ha il ruolo di foglia di fico per coprire questa riapertura ingiustificata e pericolosa.

Landini ha detto “l’importante non è quando si riapre, ma come”: una dichiarazione irresponsabile e suicida per un sindacato che voglia realmente tutelare i lavoratori. Dopo settimane in cui si è detto in tutte le salse che si trattava di ridurre il contagio, di “abbassare la curva”, di prendere tempo, su quali basi si può uscirsene con questa posizione? O forse ci sono dati sanitari che non conosciamo?

Il “quando” è importante tanto quanto il “come”; e il momento non è ancora arrivato.

Certo, il problema di come si lavora nelle aziende è decisivo, sia per chi già oggi è aperto, sia per chi dovrà riaprire. Andiamo al punto: le procedure e le prescrizioni del protocollo possono essere d’aiuto, ma sono lettera morta in assenza 1) di meccanismi seri di controllo 2) Di sanzioni certe, credibili e immediate per l’impresa inadempiente.

Il Dpcm dichiara (art. 2, punto 7 della bozza), che “la mancata attuazione dei protocolli che non assicuri adeguati livelli di protezione determina la sospensione dell’attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza”. Ma in assenza di responsabili e poteri precisi, questa non è altro che ipocrisia.

Rivendichiamo il pieno ripristino dei diritti sindacali per tutti i lavoratori attivi: se possiamo lavorare, possiamo anche riunirci in assemblea (rispettando le distanze), i delegati devono avere piena agibilità e di verifica in ogni momento della condizione reale.

In presenza di una situazione di pericolo, i delegati o i rappresentanti devono avere la facoltà di interrompere immediatamente la produzione segnalando alle autorità sanitarie, mantenendo il fermo fino a quando queste non abbiamo ispezionato l’azienda.

La Cgil dovrebbe mobilitare inoltre tutto il suo apparato per verificare sul campo la situazione in tutte quelle aziende non sindacalizzate, negli appalti, ecc., nonché garantire copertura a qualsiasi iniziativa di sciopero dovesse essere convocata dai delegati o anche da gruppi di lavoratori che verificassero situazioni di pericolo.

A nostro avviso le riaperture non sono giustificate se non quando il contagio sia in regresso accertato e consolidato su tutto il territorio nazionale e nelle singole regioni.

Ma anche quando questo si verificherà, tutto resterà ancora da fare.

Mentre il governo e i media ci intrattengono parlando della messa domenicale o della differenza tra andare a trovare i nonni o l’amante e sui centimetri di distanza mentre passeggiamo al parco, il silenzio su tutto ciò che davvero conta è assordante.

Conte, ripetiamolo, ci ha tenuto a dire una volta di più che l’unica arma è il distanziamento sociale. Questa è una menzogna sfacciata.

Il distanziamento è una delle armi, e necessariamente la più debole soprattutto nel lungo periodo. Per quanto parziali e lacunosi, i dati fin qui raccolti sui canali di diffusione del contagio sono molto chiari: se le Rsa e strutture simili sono state il teatro di una vera strage e della larga diffusione del contagio anche fra gli operatori, a seguire gli ambiti di trasmissione più frequenti sono gli ospedali e ambulatori, l’ambiente familiare e i luoghi di lavoro.

Lo scenario prospettato da Conte è il seguente: si riapre, poi ci saranno altre chiusure (mirate, dicono) quando il contagio risalirà, e l’isolamento sociale prosegue fino a quando non ci sarà un vaccino.

Ma il vaccino al momento è solo una speranza. Può arrivare fra 6 mesi o fra 3 anni, può non dare piena copertura. Anzi è quasi certo, se guardiamo a quanto accade per i vaccini influenzali.

Ma Conte mente anche qui, come su tutto il resto. Oltre all’isolamento, la principale difesa sono le misure sanitarie. E non a caso su questo il primo ministro (e neanche la marionetta che svolge la funzione di figurante come ministro della sanità) non ha detto una parola. Giornali e tv asserviti, sempre alla ricerca dei cattivi che spargono le “fake news”, non trovano che questo silenzio sia una notizia, o che sia il caso di fare qualche domanda.

Eppure tutti i dati che ci vengono da altri paesi e persino dall’esperienza del Veneto, sono univoci, anche se ancora in via di completamento.

1) È indispensabile un numero di tamponi estremamente alto. Bisogna sistematicamente fare esami sui sintomatici e su tutta la cerchia venuta a contatto con chi risulta positivo.

Sono necessarie strutture decentrate e capillari a questo fine. I medici di base vanno formati, attrezzati e tutelati, vanno istituiti centri di analisi Covid in ogni paese e quartiere, così come laboratori mobili.

Questo serve sia al contenimento del contagio, sia ad intervenire precocemente sui malati, un altro fattore decisivo per abbassare il tasso di mortalità.

2) I test sierologici (quelli che verificano chi ha gli anticorpi e quindi, presumibilmente, è stato malato asintomatico ed è guarito) non danno alcuna “patente di immunità”, ma sono importantissimi per testare la reale diffusione del contagio. Farne 150mila, come dice il governo, è una cifra ridicola.

3) La quarantena in casa è strumento di diffusione del contagio (v. sopra): vanno create decine di migliaia di posti di isolamento per positivi asintomatici che non possano trascorrere la quarantena in condizioni di sicurezza per sé e soprattutto per chi ì loro vicino. Se siamo arrivati ad avere 80mila persone in isolamento domiciliare, significa che necessitiamo almeno di questo numero di posti letto per delle quarantene protette e vigilate dal punto di vista sanitario.

4) Allo stesso modo sono necessari circa 30mila posti letto (la cifra del “picco”, almeno fino a qui) in reparti per malati Covid con sintomi lievi, per evitare la saturazione delle strutture esistenti diminuire il rischio di contagio.

5) Secondo lo stesso criterio, i posti in terapia intensiva devono essere portati almeno a 15mila, di cui 5mila in reparti Covid.

A questo piano, compresa l’assunzione in pianta stabile di tutto il personale necessario, medico e ausiliario, devono essere dedicate le risorse.

Queste sono le misure, misure minime e di emergenza, di cui dovrebbe occuparsi un governo che seriamente voglia parlare di uscire dall’emergenza più stretta e preparare una nuova fase. Una nuova fase che comunque, vogliamo ribadirlo, dovrebbe avere un approccio graduale e attentamente calibrato su dati reali del contagio ben diversi da quelli odierni.

Su tutti gli altri aspetti, dai miliardi miracolosamente moltiplicati ad ogni apparizione fino alle mirabolanti e inesistenti “vittorie” mietute in Europa, rimandiamo le nostre considerazioni ad altra sede.

Con questo decreto il governo mostra la cruda realtà: contro il contagio non stanno facendo assolutamente nulla se non chiacchiere, e milioni di persone se ne stanno rendendo conto con sempre maggiore chiarezza.

28 aprile 2020

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