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Cina: le proteste contro i lockdown accendono una polveriera di rabbia

A malapena un mese dal XX Congresso del Partito comunista cinese (Pcc), celebrato in modo sfarzoso, la rabbia dal basso sta affiorando in superficie. La scorsa settimana la megafabbrica della Foxconn di Zhengzhou (Henan) ha visto un violento scontro fra gli operai e la polizia incentrato sul furto dei salari da parte del management, mentre negli ultimi due giorni proteste grandi e violente si sono registrate in numerose grandi città, che avevano come bersaglio le misure draconiane di lockdown messe in atto dal regime, divenute ormai il punto focale del malcontento diffuso. Come avevamo predetto da tempo, la profonda crisi del capitalismo cinese comincia a spronare le masse all’azione.

Fuga e lotta alla Foxconn

I primi a muoversi sono stati gli operai della fabbrica della Foxconn di Zhengzhou (Henan). Questa megafabbrica assembla il grosso della produzione globale della Foxconn, alla quale si deve il 70% degli iPhone del mondo. Per questa produzione mastodontica, la megafabbrica ospita 130mila operai, che vivono in loco.

La fabbrica, alla quale nel 2021 è stato conferito il titolo di “Avanguardia del Lavoro” da parte della Federazione cinese dei sindacati, organismo alle dipendenze del regime del Pcc, è in realtà un inferno di brutale sfruttamento per chi vi lavora. A fine ottobre decine di migliaia di operai si erano già dati alla fuga a piedi, per timore che la fabbrica potesse essere sottoposta a un feroce lockdown a causa di un focolaio di Covid-19 reso possibile dall’incoscienza del management, che non aveva predisposto adeguate protezioni. Ora gli operai della stessa fabbrica si stanno rivoltando contro un palese caso di furto del salario.

Gli operai avevano firmato contratti che promettevano bonus di 3mila renminbi (poco più di 400 euro) per 30 giorni di lavoro, con ulteriori 3mila per altri 30 giorni. Ben presto però molti hanno scoperto che la Foxconn aveva modificato le date in modo tale che nessun lavoratore avrebbe ricevuto il primo bonus se non dopo più di 60 giorni di lavoro. Molti operai sono andati su tutte le furie, perché stavano mettendo da parte i risparmi per le festività del capodanno lunare, a inizio 2023.

Il 22 novembre gli operai arrabbiati si erano riuniti per protestare contro il furto da parte dei padroni. Li aspettava la violenza delle forze di sicurezza della fabbrica, alla quale hanno risposto con una coraggiosa resistenza. Con il personale di sicurezza della fabbrica rapidamente sopraffatto, le autorità locali del Pcc hanno mandato la polizia a dare manforte alla repressione.

Tale erano le dimensioni e la ferocia della protesta degli operai, però, che il governo dello Henan ha dovuto mobilitare oltre 20 camionette cariche di poliziotti dalle città limitrofe di Luoyang, Kaifeng, Zhumadian e Xuchang.

Nonostante questo, gli operai hanno sfidato a viso aperto le forze di sicurezza dello Stato, armate di scudi antisommossa, lacrimogeni e idranti. In tutta la fabbrica è continuata la lotta di strada, anche dopo l’arrivo di ulteriori poliziotti. Alla fine il management ha fatto marcia indietro e ha promesso 10mila renminbi a ogni operaio disposto ad andarsene immediatamente.

La notizia della lotta si è diffusa rapidamente in tutta la Cina. Il movimento degli operai Foxconn ha dimostrato che è possibile lottare, a dispetto del regime, e ottenere delle concessioni. Per un settore più vasto delle masse questa lotta è stato una fonte di ispirazione per protestare apertamente contro i draconiani lockdown del regime. Tutto ciò smaschera per l’ennesima volta la vera natura del regime del Pcc, guardiano del capitalismo cinese a spese della classe operaia.

In rivolta contro i lockdown

In un primo momento le rigide misure messe in atto dal regime del Pcc erano riuscite a contenere il coronavirus meglio delle controparti occidentali. Come abbiamo già avuto modo di spiegare, però, è impossibile tenere in piedi una strategia di eliminazione “zero Covid” in un solo Paese. La Cina non può tagliarsi completamente fuori dal resto del mondo; inoltre, la comparsa di mutazioni del virus ancora più contagiose rende nuovi focolai inevitabili.

Le masse cinesi sono state costrette a pagare un prezzo molto pesante in quanto a lockdown duri che ne hanno stravolto la vita quotidiana e portato a perdite di posti di lavoro a livelli di massa. Il regime ha prolungato queste misure molto più che negli altri Paesi. Ora ha cercato in qualche modo di cambiare rotta, ma questo, a causa del suo stesso carattere burocratico, non ha fatto che aggravare le sofferenze delle masse.

All’indomani del XX congresso, infatti, il regime ha alleggerito i tempi di quarantena per i visitatori stranieri da 7 a 5 giorni. Al contempo continuava però a dare indicazione ai burocrati locali di non fare passi indietro rispetto alla politica “zero Covid”.

Man mano che i casi di Covid-19 hanno cominciato ad aumentare, parallelamente all’alleggerimento delle restrizioni, i burocrati locali – seguendo i diktat dall’alto per tenere i casi a zero – hanno risposto con nuove tornate di lockdown ancora più draconiani e folli, mettendo ancora più in difficoltà le vite delle masse. La burocrazia si aspettava che le masse si limitassero a obbedire agli ordini. Non hanno capito che queste ultime avevano raggiunto il limite.

In seno alle masse qualcosa si è rotto. A Urumqi, capitale provinciale del Xinjiang, l’incendio di un condominio ha causato oltre 10 morti (anche se molti affermano che potrebbero essere addirittura 44) ed ha fatto da catalizzatore per un’ondata di rabbia. All’indomani dell’incendio molte dita sono state puntate contro i lockdown di quartiere imposti dallo Stato, accusati di avere causato gravi ritardi alle operazioni di soccorso, portando a molte morti non necessarie.

È stato troppo per le masse, che sono passate velocemente dal lamentarsi della tragedia sui social a scendere per strada en masse. Come in precedenti esplosioni di massa, le proteste sono cominciate con appelli alla ribellione da parte di un pugno di individui arrabbiati. Poi, via via che altri si sono uniti a loro, l’indignazione comune si è coagulata in una massa coraggiosa e determinata. Centinaia e potenzialmente migliaia di persone sono scese spontaneamente in strada, sfidando i lockdown e portando la protesta sin sotto il municipio.

La valanga di rabbia su internet è stata così potente da dimostrarsi troppo anche per il gigantesco apparato censorio a disposizione del regime. Contenere il movimento iniziale si è rivelato impossibile. Ora ovunque le persone trovano il coraggio di unirsi alle manifestazioni. In pochi giorni le veglie di protesta per le vittime dell’incendio di Urumqi si sono diffuse spontaneamente in tutte le principali città cinesi. Gran parte dei manifestanti non hanno nessuna esperienza di partecipazione politica o atti di protesta. Molti hanno mostrato in diretta le loro attività, complicando le cose per la censura.

Il simbolo molte di queste proteste è, in particolare, l’atto di alzare un foglio di carta bianca: un affondo ironico al tentativo del regime di vietare slogan di protesta, ripreso dal movimento di Hong Kong del 2019.

Proteste che vanno dai raduni di massa alla rimozione delle barriere usate nei lockdown si sono finora registrate a Nanchino, Chongqing, Chengdu, Shanghai, Canton, Wuhan e Pechino. [Questo articolo è stato scritto il 27 novembre. Mentre lo pubblichiamo, parrebbe che la maggior parte delle folle si siano disperse e che la polizia sta prendendo il controllo di diverse zone. Le cose sono in rapido sviluppo e resta da vedere come andrà avanti il movimento nelle prossime ore e giorni.]

I giovani sono mobilitati con grande energia. Sono ora 79 le università di 15 province che hanno visto proteste di massa da parte degli studenti, 14 delle quali nella sola capitale Pechino.

A Nanchino ci sono stati grandi sit-in studenteschi notturni, in particolare presso la Scuola di giornalismo dell’Università di Nanchino. Gli studenti cantavano l’inno nazionale cinese e l’Internazionale e sfidavano a viso aperto le restrizioni del lockdown. I presidi sono stati così grandi che si è presentato addirittura il direttore della scuola per cercare di convincere gli studenti ad andare a casa. Ha persino promesso che si sarebbe fatto finta di nulla se gli studenti se ne fossero andati. Naturalmente questi ultimi sanno benissimo che è una menzogna bell’e buona e non hanno ceduto.

Anche da Pechino arriva notizia di simili sit-in universitari. All’Università Tsinghua ben 1.000 studenti avrebbero protestato in pieno giorno.

Anche le strade al di fuori dai campus universitari si sono riempite di cittadini comuni al grido di: “No ai tamponi, vogliamo mangiare! No ai lockdown, vogliamo la libertà!”. Questo slogan era stato inizialmente sollevato da un manifestante solitario nello striscione che aveva appeso a Pechino alla vigilia del XX Congresso del Pcc. L’uomo è stato subito arrestato, ma il suo slogan evidentemente ha trovato una vasta eco in molte persone. Durante tutto il giorno i manifestanti si sono radunati al ponte di Sitong, dove qualche settimana fa era stato appeso lo striscione, oppure hanno proseguito la veglia sul fiume Liangma. Per tutta la notte c’è stato chi cantava l’Internazionale.

A Shanghai le folle si sono radunate in una via chiamata appunto via Urumqi per svolgere una veglia, per poi essere disperse o arrestate dalla polizia. L’indomani erano ancora più del giorno prima.

La situazione è in rapido sviluppo, ma in quanto a estensione e respiro la lotta in corso sta già lasciando un segno nella storia come la più ampia degli ultimi 30 anni.

Vento di ribellione

I marxisti sostengono pienamente la lotta delle masse contro i lockdown draconiani imposti dal Pcc. Il partito, in ultima analisti, sta conducendo una politica rivolta a mantenere il proprio potere dittatoriale. Xi ha scommesso la propria reputazione sul successo di questa politica basata sui lockdown. Ha bisogno di essere visto come l’uomo forte al posto di comando, capace di proteggere il popolo cinese, poiché questo gli darebbe l’autorità necessaria per affrontare la tempesta economica e sociale all’orizzonte.

Il regime si trova inoltre con un vaccino, il Sinovac, che non ha la stessa efficacia dei vaccini occidentali. In larga misura ciò è dovuto al protezionismo tecnologico dell’Occidente, che non condivide la tecnologia necessaria per l’mRNA. Tuttavia il regime stesso si è rifiutato di acquistare vaccini più efficaci dalle aziende farmaceutiche occidentali per motivi di prestigio.

Ma tanto il suo prestigio quanto la sua autorità stanno venendo meno. Mentre la pazienza della popolazione è arrivata al limite, il Covid-19 non è stato eliminato. Mentre le grandi aziende hanno ricevuto generose esenzioni e benefici, molte persone comuni sotto lockdown non hanno accesso alla carne, e a volte non riescono nemmeno a ordinare generi alimentari di qualsiasi tipo.

Pur continuando a definirsi un regime “comunista”, in Cina non c’è il comunismo. I lavoratori non hanno nessun controllo democratico nei luoghi di lavoro o nella società in generale. Questa mancanza di controllo democratico dal basso ha portato a tutte le incoerenze, inettitudini e sofferenze imposte dalla burocrazia alle masse.

Se in Cina vi fosse stata un’autentica democrazia operaia, la sfida della lotta alla pandemia avrebbe visto le masse stesse coinvolte nello sviluppo delle misure necessarie per minimizzare i contagi, vaccinare la popolazione, proteggere i posti di lavoro e i salari, e garantire l’accesso ai beni di prima necessità. Chiunque sarebbe stato tenuto pienamente informato e coinvolto in uno sforzo collettivo per proteggere la sanità pubblica, anziché vedersi calare dall’alto misure pericolose e onerose.

Nessuna fiducia nei liberali!

Giunti a questo punto vogliamo rivolgere un avvertimento a chi sta partecipando al movimento di massa. Se per ora non ci sono molti segnali di un intervento nefasto di elementi liberal-borghesi nelle proteste, è necessario respingere nella maniera più assoluta chiunque chieda aiuto all’Occidente. È stato questo l’errore fatale che ha portato il movimento di Hong Kong del 2019 alla sconfitta. È probabile che i governi occidentali emetteranno dichiarazioni biforcute di “solidarietà” con queste proteste per la “democrazia”, ma queste aperture devono essere rifiutate con sdegno. L’imperialismo occidentale non è amico dei lavoratori e dei giovani cinesi. Tutto ciò che vuole è indebolire la Cina – principale rivale del capitalismo Usa sulla scena mondiale – per promuovere i propri interessi politici.

Non dobbiamo nutrire alcuna illusione nemmeno nel sistema pro-capitalista vigente sotto il Pcc. Il regime potrebbe anche essere costretto a fare qualche concessione, ma solo al fine di smobilitare le proteste, per poi scagliarsi contro gli organizzatori una volta fatto rifluire il movimento. Va anche scartata l’idea che sotto questo regime sia possibile una qualche riforma verso un autentico socialismo.

Per ora la maggioranza delle proteste sta avanzando slogan concentrati sul termine dei lockdown, oppure sul renderli “più umani”. Solo una minoranza chiede la caduta del Pcc e Xi Jinping, o avanza rivendicazioni liberali borghesi come la libertà di stampa e di parola. Se il regime passerà alla repressione, non farà che offrire una cocente lezione di cui una nuova generazione di lavoratori e giovani farà tesoro.

Ma tanto la repressione quanto le concessioni presentano dei rischi per il regime. Le concessioni incoraggeranno le masse, dimostrando che il regime non è onnipotente come si presenta. La repressione, d’altro canto, rischia di gettare benzina sul fuoco della rabbia e dell’indignazione.

Comunque si svilupperanno le cose, questa esperienza aiuterà a portare i settori più avanzati alla conclusione che le sole riforme democratico-borghesi non risolveranno in nessun modo i loro problemi. L’unica strada è l’abbattimento rivoluzionario del regime capitalista del Pcc, seguita dall’instaurazione di un’autentica democrazia socialista operaia.

Il movimento non può semplicemente contare su un’ammissione di sconfitta da parte del regime. Il governo di Xi Jinping ha concentrato tutto il potere nelle mani dell’uomo al vertice e ha intenzione di lasciare le cose come stanno. A un certo punto ci sarà una rappresaglia. Si parla già di operai di Zhengzhou arrestati nelle loro case dopo aver accettato la concessione dei 10mila renminbi.

Questo movimento di protesta ha però scoperchiato il profondo risentimento accumulato in seno alla massa dei lavoratori e dei giovani. Data la natura del regime, con i suoi potenti mezzi coercitivi e repressivi, la sua censura generalizzata e il controllo dei mezzi di comunicazione, a volte potremmo pensare che in Cina la società e il regime siano stabili… almeno finché dal basso non arrivano queste esplosioni. A quel punto emerge la vera instabilità del regime e agli occhi di milioni di persone. Si sta verificando un processo di differenziazione di classe, scaturito dalla polarizzazione sociale prodotta da decenni di sviluppo capitalista.

Finché la transizione al capitalismo sembrava funzionare – creando posti di lavoro, sviluppando la società, producendo un potente apparato produttivo, nonostante tutte le diseguaglianze – le masse potevano avere la sensazione che le cose stessero migliorando, che oggi fosse meglio di ieri, e domani meglio di oggi. Ma tutto questo ha ora raggiunto i suoi limiti.

Lontani sono ormai i giorni della crescita a doppie cifre. Tutte le contraddizioni del capitalismo stanno ora spingendo le masse sulla strada della lotta di classe. Ma gli scorsi 40 anni di trasformazione e sviluppo del capitalismo in Cina hanno prodotto il più grande proletariato sulla faccia del pianeta, che ora conta centinaia di milioni di persone. Una forza che sta cominciando a muoversi. I burocrati del Pcc, a braccetto con i capitalisti cinesi e stranieri, hanno buoni motivi per essere preoccupati da questi ultimi avvenimenti.

28 novembre 2022

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