Catalogna – Un anno dopo l’ “Ottobre repubblicano”: un bilancio e alcune conclusioni

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Catalogna – Un anno dopo l’ “Ottobre repubblicano”: un bilancio e alcune conclusioni

Un anno fa, il referendum sull’indipendenza catalana del 1° ottobre è diventato un punto di svolta nell’intera situazione politica in Catalogna e in tutto lo Stato spagnolo. Quello che noi chiamiamo “Ottobre repubblicano” è stato caratterizzato da un ingresso improvviso delle masse nell’arena politica. Ha visto un’impressionante mobilitazione dal basso che ha sfidato l’apparato dello stato e allo stesso tempo l’esitazione dei leader della Generalitat, diventando una delle maggiori sfide che il regime del 1978 ha dovuto affrontare in 40 anni. Avrebbe potuto molto più in là. Cosa mancava?

Perché, un anno dopo, ci ritroviamo al punto di partenza, con una maggioranza indipendentista in un parlamento regionale? In effetti, per molti aspetti, abbiamo fatto dei passi indietro. Dozzine di persone che hanno sostenuto l’indipendenza sono ora prigionieri politici ed esiliati, e molti altri attivisti sono stati incriminati.

C’è una minaccia permanente che lo Stato spagnolo possa intervenire e sospendere i poteri decentrati delle istituzioni catalane. Il governo catalano accetta i limiti stabiliti dallo Stato spagnolo. La repubblica, che un anno sembrava a portata di mano, ora sembra più lontana. Per continuare la lotta, dobbiamo fare un bilancio sobrio di ciò che è accaduto, dei punti di forza di un movimento che ha acquisito caratteristiche insurrezionali; ma, soprattutto, dei suoi difetti, che ci hanno condotto a questa impasse.

Dobbiamo tornare indietro al 6 settembre 2017, quando il Parlamento catalano ha approvato la richiesta di referendum. La procedura parlamentare è stata necessariamente affrettata nel tentativo di aggirare la prevista sospensione del referendum da parte della magistratura spagnola.

A quel tempo, non era ancora chiaro se il referendum si sarebbe effettivamente svolto. Abbiamo spiegato che questo dipendeva dalla correlazione relativa delle forze basata su tre fattori. In primo luogo, c’era il regime spagnolo del 1978, le cui fondamenta erano minacciate da qualsiasi tentativo di autodeterminazione catalana. In secondo luogo, i politici nazionalisti piccolo-borghesi di Junts pel Sì (JxSí), come avevamo spiegato, non erano in grado di utilizzare i mezzi rivoluzionari necessari per portare il referendum fino in fondo. La terza variabile era il livello di mobilitazione di massa che la richiesta di referendum poteva generare. Questo è stato il fattore che ha sorpreso tutti. Ha superato non solo le incertezze del governo catalano, ma anche gli slogan di organizzazioni come l’ANC (Assemblea Nazionale Catalana). È stato questo il fattore che, in pratica, ha costituito la forza trainante del referendum sull’indipendenza.

Come previsto, lo stato spagnolo ha risposto in maniera ferma e risoluta alla sfida posta dalla convocazione del referendum. La Corte Costituzionale ha sospeso immediatamente la decisione del Parlamento catalano e ha cominciato a minacciare tutti i soggetti coinvolti: il governo catalano, i deputati del parlamento che avevano votato a favore, i sindaci del consiglio comunale che avevano dichiarato la loro disponibilità a organizzarlo, i segretari comunali, i volontari e così via. Tutti erano considerati complici di un crimine contro lo Stato. A quel tempo, le finanze della Generalitat erano già sotto stretto controllo da parte di Madrid in violazione delle prerogative regionali.

La repressione politica, guidata dal procuratore generale dello Stato spagnolo, è stata accompagnata da una frenetica operazione di polizia per interrompere la logistica del referendum: trovare le urne, sequestrare le schede elettorali, impedire l’invio di schede di censimento, ecc. E’ a questo punto che si è sviluppata un’ondata crescente di mobilitazione popolare in difesa dei diritti democratici. Le irrizioni della polizia negli uffici del quotidiano El Vallenc a Valls e nella tipografia utilizzata dal quotidiano a Tarragona il 9 settembre hanno provocato manifestazioni di protesta.

I manifestanti hanno gridato ironicamente “Dove sono le schede elettorali, dove sono?” sulle note di una famosa canzone catalana. Questo era accompagnato da un altro slogan, che mostrava uno stato d’animo risoluto: “VOTAREM!” (Voteremo!) E sempre più “Forze di occupazione, fuori!”, che sono passate dall’essere slogan patrimonio di gruppi marginali all’avere un’eco di massa. In una spirale ascendente, l’aumento della repressione dello Stato ha ottenuto come risposta l’aumento della mobilitazione popolare.

L’11 settembre, il Giorno della Diada, la festa della nazione catalana, dello scorso anno è stato di nuovo un evento importante con oltre un milione di persone che hanno preso parte alla manifestazione principale. Molto significativa è stata la manifestazione e il raduno del movimento indipendentista di sinistra nel pomeriggio a Barcellona. C’era un’atmosfera molto militante tra la folla per lo più giovane e molti discorsi di sinistra.

La repressione statale c’è stata, non solo in Catalogna, ma fin dall’inizio ha avuto anche l’obiettivo di prevenire qualsiasi atto di solidarietà con il referendum nel resto dello Stato spagnolo. Così, a Madrid, agli organizzatori di una manifestazione a favore dell’autodeterminazione catalana è stato revocato il permesso. La manifestazione è stata successivamente tenuta in un Teatro del Barrio affollato, con centinaia di persone che hanno seguito l’evento dall’esterno. A Vitoria, nei Paesi Baschi, un incontro che era già iniziato è stato interrotto dalla polizia e ha dovuto proseguire all’esterno. Chiaramente, c’era il potenziale per organizzare una campagna di solidarietà e difesa dei diritti democratici in tutto lo Stato spagnolo. Sfortunatamente, né i leader di Podemos né quelli di Izquierda Unida erano all’altezza di questo compito. Nascondendosi dietro pretesti legali sulla cosiddetta mancanza di “garanzie” dal referendum, di fatto si sono posti a fianco del nazionalismo spagnolo reazionario.

La tensione ha continuato ad aumentare nei giorni successivi, e in particolare dopo il 14 settembre: il giorno in cui è iniziata ufficialmente la campagna referendaria. La repressione è continuata – e aumentata. I media che avevano pubblicato la pubblicità sul referendum erano soggetti a minacce da parte della polizia. Le pagine web ufficiali per il referendum sono state chiuse dalla polizia. I siti web sul referendum ospitati su server esteri sono stati bloccati in Spagna. C’era una pressione costante sugli attivisti che violavano il divieto di affissione con il materiale pro-referendum, con arresti, identificazione ufficiale da parte della polizia; e la confisca di poster, secchi e colla.

Questa repressione, che a volte andava anche oltre ciò che era tecnicamente legale, ha rivelato il carattere autentico del regime del 1978. Non poteva in alcun modo accettare una messa in discussione di uno dei suoi pilastri fondamentali: l’unità della Spagna, garantita dalle forze armate. Temeva che ciò avrebbe portato a mettere in discussione altri pilastri, come l’amnistia per i crimini di Franco; l’esistenza della monarchia che lui ha installato; e la proprietà privata dei capitalisti.

La “folla in tumulto” del 20 settembre: un punto di svolta

Infine, la tensione accumulata è esplosa il 20 settembre. Già gli eventi del 19 settembre avevano preparato il terreno. A Terrassa, un’irruzione della polizia, condotta senza un ordine del tribunale, in un sito della società postale privata Unipost, in violazione della privacy della posta legalmente protetta, ha generato un’ampia risposta. Centinaia di persone si sono radunate alle porte di Unipost, impedendo l’uscita degli agenti della Guardia Civil o l’ingresso dei rappresentanti del giudice.

Dopo più di cinque ore di assedio, le forze di polizia catalane (i Mossos d’Esquadra) hanno caricato la folla e permesso alla Guardia Civil spagnola di lasciare l’edificio.

Nel frattempo, nello stesso giorno, a Reus, la pazienza delle masse si è esaurita. Per giorni, gli attivisti che affiggevano manifesti per il referendum erano stati identificati dalla polizia locale. A questa provocazione è stato aggiunto l’arrivo di 50 rinforzi della polizia, che erano venuti in città per partecipare all’operazione contro il referendum.

Nel tardo pomeriggio, un gruppo di attivisti è stato arrestato mentre lasciava gli uffici dell’ANC per andare ad attacchinare. Ciò ha generato come risposta un appello a un attacchinaggio di massa per le 11 di sera.

Migliaia di persone si sono riunite in una manifestazione spontanea che ha marciato attraverso il centro della città, finendo di fronte all’Hotel Gaudí, dove erano alloggiati i rinforzi della polizia. La folla ha urlato, forte e chiaro: “Fuori le forze di occupazione!” e “Voteremo!”

Sempre più ampi settori delle masse hanno capito che lo svolgimento del referendum dipendeva dalla loro partecipazione diretta alla sfida della repressione statale.

Il 20, ci siamo svegliati con la notizia dell’ “Operazione Anubi”. Nelle prime ore del mattino, la Guardia Civil aveva effettuato perquisizioni e arresti nelle case private e nelle sedi ufficiali di alti funzionari della Generalitat, che erano stati ritenuti responsabili per l’organizzazione del referendum. Sia l’ANC che il Òmnium hanno chiamato delle manifestazioni fuori dalla sede del Dipartimento dell’Economia all’angolo tra la Gran Vía e la Rambla de Catalunya. La gente ha iniziato ad arrivare, mentre stava filtrando la notizia dell’arresto di 14 alti funzionari governativi catalani. La tensione stava crescendo.

Allo stesso tempo, è arrivata la notizia di un tentativo da parte della polizia di perquisire la sede nazionale del CUP in Carrer de Casp, anche senza un ordine del tribunale, e c’è stato un appello alla manifestazione per difenderlo. Dall’interno dell’edificio, tutti i manifesti e volantini sono stati rimossi e distribuiti alla folla che stava difendendo i locali dall’esterno. In pochi minuti, migliaia di manifesti e articoli di propaganda sono passati di mano in mano, per essere distribuiti in tutto il paese. La sede di Podemos in Catalogna è a due passi da quella del CUP e i suoi leader, guidati dall’allora segretario, Albano Dante-Fachin, le hanno offerte come base per il supporto logistico.

Va notato che Albano è l’unico leader della sinistra non indipendentista che può essere orgoglioso della sua condotta durante l’intero processo, avendo mantenuto una posizione netta in difesa dei diritti democratici, invitando le persone a partecipare al referendum e prendendo parte in prima linea a tutte le mobilitazioni. Ciò ha provocato un colpo di stato interno a Podemos Catalogna, organizzato dalla direzione statale, che si è concluso con la sua rimozione dalla posizione di leader.

Il numero di persone raccolte al di fuori del Dipartimento dell’Economia ha continuato a crescere. Una fila di Mossos proteggeva gli ufficiali della Guardia Civil che stavano sorvegliando l’entrata. L’atmosfera era tesa, ma allo stesso tempo militante e festosa. Le perquisizioni della polizia quel giorno erano considerate, giustamente, come una violazione intollerabile dei diritti democratici e l’inizio dell’abolizione delle istituzioni catalane. Fin dal primo mattino, lo slogan “Sciopero generale!” È stato aggiunto a “Voteremo!”. A metà mattinata, gli studenti delle università sono scesi in sciopero e lentamente si sono aggregati all’assedio dell’edificio. Ci sono stati altri presidi al di fuori di diversi edifici governativi in Via Laietana, mentre nella sede del CONC (sindacato CCOO catalano), situati sulla stessa strada, funzionari e lavoratori sono usciti per protestare e bloccare la strada.

È necessario ripristinare la verità storica di quello che è successo quel giorno. Jordi Cuixart e Jordi Sánchez, rispettivamente i leader di Òmnium e dell’ANC, sono ora in prigione, accusati di sedizione per la loro partecipazione a questi eventi. In realtà, il ruolo dell’ANC e dell’Omnium è stato in ogni momento quello di cercare di calmare la situazione e indirizzarla verso canali sicuri. I volontari di queste due organizzazioni con giubbotti ben visibili hanno tentato di aprire un corridoio per consentire l’uscita dei funziuonari del tribunale dal palazzo del Dipartimento dell’Economia. Non sono stati in grado di farlo. Quando i due Jordi sono saliti sulla jeep che la Guardia Civil aveva lasciato davanti all’edificio, hanno chiesto alla gente di tornare a casa, sostenendo che una dimostrazione di forza era già stata fatta, ma che era necessario porre fine alla protesta.

In quel momento, c’erano circa 40.000 persone alla manifestazione, che riempivano le strade dell’intera area. La gente non se ne è andata. Alcuni hanno criticato i due Jordi, urlando loro: “Voi andate, noi restiamo”.

Dal punto di vista più rigoroso, è vero che c’era una “folla in tumulto” determinata a impedire agli “forze dell’ordine” di esercitare le loro funzioni, e questa è la definizione data nell’attuale codice penale spagnolo (ereditato dal regime franchista) del crimine di sedizione. Ma i due Jordi hanno cercato di impedirlo, non di promuoverlo – e certamente di non prenderne il comando!

Le accuse di sedizione riassumono il carattere anti-democratico del regime del ’78. In primo luogo, perché il crimine di sedizione sotto l’attuale codice penale è copiato parola per parola dal codice criminale franchista del 1944, ed è stato accettato senza modifiche durante la “transizione verso la democrazia”. Inoltre, il tribunale competente per il perseguimento di queste accuse, il tribunale nazionale, è l’erede diretto del tribunale dell’ordine pubblico di epoca franchista. Il giudice che ha assunto il caso, Ismael Moreno Chamarro, è un ex agente di polizia dell’epoca di Franco.

La difesa della sede nazionale della CUP è stata esemplare. Migliaia di persone hanno impedito l’ingresso della Guardia Civil e dei Mossos senza cedere alle loro ampie provocazioni. In un modo calmo e fermo, la folla alla fine li ha costretti ad andarsene a mani vuote.

Solo nelle prime ore del mattino seguente, quando sono rimasti in pochi, e dopo varie cariche da parte dei Mossos, che i funzionari del tribunale che ha effettuato la perquisizione è stato in grado di lasciare il Dipartimento dell’Economia.

Il 20 settembre ha segnato una svolta decisiva. Le masse sono entrate in scena e avevano fatto il loro lavoro per garantire lo svolgimento del referendum. Nel frattempo, i leader del governo catalano esitavano. Invece di difendere incondizionatamente la decisione del Parlamento del 6 settembre, i sindaci del PDeCAT e del CER hanno annunciato che si sarebbero sottomessi alla citazione in giudizio.

La Generalitat ha presentato ricorso alla Corte costituzionale, di cui non avrebbe dovuto riconoscere più l’autorità. Successivamente, si è appreso, con la divulgazione delle registrazioni della polizia, che all’interno del governo catalano c’è stata una lotta silenziosa tra ERC e PDeCAT. Entrambe le parti sapevano di non aver creato le “strutture statali” che avrebbero dovuto garantire la proclamazione della repubblica, e quindi sono arrivati al referendum completamente impreparati, ma nessuno dei due voleva ammetterlo per paura di essere accusati di fallimento dall’altro. Invece di chiedere una mobilitazione popolare contro la repressione e di garantire il referendum, c’erano richieste di calma e tranquillità; e appelli all’Unione Europea.

Il 20 settembre è arrivato. I traghetti sono arrivati al porto di Barcellona, portando con sé altri poliziotti per impedire fisicamente lo svolgimento del referendum. Ciò ha provocato un altro balzo in avanti da parte del movimento quando i portuali di Barcellona hanno deciso in un’assemblea di massa di non voler rifornire queste navi. Questi ultimi e i vigili del fuoco sono i due settori più organizzati della classe operaia che hanno svolto un ruolo decisivo in tutte le mobilitazioni per i diritti democratici e contro la repressione. Lo slogan di uno sciopero generale stava guadagnando un sostegno crescente.

La partecipazione di questi settori del movimento operaio, lungi dall’essere simbolica, aveva una natura pratica molto importante. I vigili del fuoco, ad esempio, hanno gestito il servizio d’ordine di molte manifestazioni e cortei in quei giorni, per proteggerli da eventuali azioni di polizia. E lo hanno fatto sfidando espressamente l’ordine di non partecipare ad azioni politiche, non di farlo indossando l’uniforme e così via. In modo disciplinato, si sono resi disponibili al movimento per garantire la difesa dei seggi elettorali il 1 ° ottobre.

Allo stesso tempo, tutte le organizzazioni imprenditoriali e la borghesia catalana si sono schierate fermamente contro il referendum e si sono schierate dalla parte dello stato spagnolo, organizzando una campagna di terrorismo economico e minacce contro i diritti democratici, con l’inizio di una fuga delle aziende dalla Catalogna. Ogni giorno che passava, il carattere di classe di questo confronto diventava più chiaro.

Il sindacato CGT ha preso l’iniziativa di proclamare uno sciopero generale di 24 ore in Catalogna contro la repressione. Hanno fissato la data per il 3 ottobre: il primo giorno in cui poteva essere svolto entro i termini di legge. Questo è stato un passo molto importante. In Spagna, gli scioperi politici non sono ammessi e questo era chiaramente uno sciopero politico. Il fatto che l’appello fosse stato lanciato da un sindacato anarco-sindacalista rifletteva il diffuso sostegno che il movimento per la repubblica aveva guadagnato con l’aumentare della repressione.

Il 21 settembre, ci sono stati scioperi studenteschi e assemblee di massa nelle università e decine di migliaia si sono radunati fuori dalla Corte Suprema catalana per chiedere il rilascio di coloro che sono stati arrestati in seguito alle perquisizioni della polizia il giorno prima. Il movimento studentesco, che era massiccio e di natura molto radicale, ha continuato quasi ininterrotto fino al giorno del referendum, e ha portato all’occupazione dell’edificio storico del Rettorato, diventato uno spazio di discussione e organizzazione.

Inoltre, allo stesso tempo i Comitati in Difesa del Referendum hanno iniziato a diffondersi. I CDR avevano iniziato a svilupparsi in forma embrionale in alcune località in primavera, principalmente per iniziativa della sinistra indipendentista. Ora questa idea, che “solo il popolo salva il popolo”, si è diffusa a macchia d’olio in tutta la Catalogna, con i CDR e i Comitati di difesa del vicinato allestiti nelle città, nei paesi e nelle comunità locali. Inoltre, in alcuni casi (ad esempio a Sabadell, una città di 210.000 abitanti), i CDR hanno acquisito un’organizzazione quasi militare coprendo l’intera città, convocando assemblee di massa in ogni quartiere e organizzando un coordinamento locale.

Come in ogni movimento rivoluzionario – e il movimento per la Repubblica catalana aveva certamente caratteristiche rivoluzionarie – le masse sentivano il bisogno di dotarsi di organizzazioni ampie e democratiche per coordinare e dirigere la lotta. Questa è stata l’origine dei soviet nella rivoluzione russa del 1905. Ma organizzazioni simili, con nomi diversi, sono emersi in quasi tutti i movimenti rivoluzionari in tutto il mondo e nel corso della storia.

Le masse erano nelle strade, pronte a combattere e ad assicurare lo svolgimento del referendum in barba alla crescente ondata di repressione di stato. E l’hanno fatto andando oltre i limiti del governo catalano e persino delle organizzazioni di massa del movimento per la sovranità nazionale.

Chi garantiva lo svolgimento del referendum?

Vediamo, per esempio, come è stata organizzata l’occupazione dei seggi elettorali. La Procura della Repubblica aveva impartito precise istruzioni alla polizia (compresi i Mossos) che dovevano essere presenti, la mattina presto, negli edifici che potevano essere usati come seggi elettorali per sigillarli e organizzare una “zona vietata” di 100 metri intorno a loro, avvisando rispetto alle gravi implicazioni criminali del violarla. Di fronte a questa situazione, l’ANC ha diffuso istruzioni su cosa fare il Primo ottobre: la proposta era di rispettare il perimetro della polizia e la zona vietata e di formare code ordinate che si sarebbero mantenute nel corso della giornata per “dimostrare la forte volontà dei catalani di votare”. Cioè: un’azione simbolica mirata a suscitare la simpatia dell’opinione pubblica (e magari quella dell’Unione Europea), ma senza conseguenze pratiche. Se queste istruzioni fossero state seguite, non ci sarebbe stato alcun referendum.

Invece, l’organizzazione popolare dal basso ha pubblicizzato un appello a occupare scuole e campus universitari che dovevano essere utilizzati come seggi elettorali dal venerdì sera, per garantire che sarebbero stati aperti domenica per il referendum. Spontaneamente e in modo auto-organizzato, i CDR e altre organizzazioni ad hoc si sono assunti il compito di garantire fisicamente il referendum, affrontando le minacce dello Stato.

Quello che è successo il 1 ° ottobre è già noto. La repressione brutale da parte della polizia e della Guardia Civil – che ha lasciato sul campo più di mille feriti e fornito immagini di violenze che non dimenticheremo mai – non ha potuto spezzare la volontà delle centinaia di migliaia di persone che si sono organizzate per garantire lo svolgimento del referendum, né i 2,2 milioni che sono andati a votare, superando tutti gli ostacoli. Alle 6 del mattino, si stima che oltre 200.000 persone fossero già nei seggi elettorali, difendendoli da eventuali azioni di polizia. Alle 9, si stima che ce ne fossero mezzo milione. In alcuni casi (incluso a Sant Carles de la Ràpita, Mont Roig del Camp e Sabadell), la forza organizzata delle persone ha costretto la polizia a ritirarsi. In effetti, le scene di repressione – con le “forze dell’ordine” a spaccare la testa ai cittadini che vogliono semplicemente esercitare un diritto democratico e le guardie civili con il passamontagna che prendono le urne con la forza – hanno fatto sì che uscissero ancora più persone per votare.

Senza dubbio, questa era la sfida più importante che il regime del 1978 ha dovuto affrontare in 40 anni. Era determinato a impedire il referendum, ma nonostante tutto il referendum si è tenuto. Le persone organizzate avevano infranto il principio di autorità dello Stato. Le implicazioni rivoluzionarie di questo fatto non possono essere sottovalutate.

Anche nel giorno del referendum, il governo catalano ha vacillato. Durante una riunione di metà giornata, hanno proposto di sospendere il referendum di fronte alla violenza della polizia. In effetti, i leader di JxSí non hanno mai pensato che il referendum potesse essere portato avanti contro l’opposizione dello Stato. Ciò che volevano (come successivamente confermato dalle dichiarazioni del ministro catalano Clara Ponsatí con l’effetto che stavano “bluffando”) era di sfidare lo Stato, ma senza alcuna seria resistenza né facendo appello a una mobilitazione che andasse oltre le manifestazioni simboliche, così che in seguito sarebbero stati in grado di dire “abbiamo provato ma non ci è stato permesso” e usare il conflitto per forzare i negoziati (magari con la mediazione dell’UE).

Chiaramente, è stata l’azione delle masse a minare questa “strategia”. Questo è un fatto significativo che spiega cosa è successo nei giorni successivi. Il problema affrontato dal governo e dai leader di JxSí era che essi stessi avevano votato per una legge che diceva che i risultati del referendum erano vincolanti e che la repubblica doveva essere dichiarata entro 48 ore nel caso di un voto per il sì. Non hanno mai creduto che il referendum si sarebbe tenuto e ora si sono trovati ad affrontare un dilemma insolubile. E così abbiamo visto di che pasta sono fatti i capi della piccola borghesia nazionalista. Incapaci di concepire una lotta con lo Stato basata sulla mobilitazione delle masse, hanno esitato per quattro settimane, cercando di non prendere decisioni, finché non ne hanno presa una che aveva un valore puramente simbolico.

Il primo esempio delle esitazioni di JxS era che hanno ritardato la sessione del parlamento fino al 10 ottobre, quando si presumeva legalmente che si tenesse entro 48 ore dal referendum. Volevano creare uno spazio per il negoziato e volevano anche che la sessione si svolgesse il più tardi possibile per evitare la pressione diretta delle masse, che pensavano si sarebbe attenuata con il passare dei giorni.

Lo sciopero generale del 3 ottobre

La repressione del 1° ottobre ha incoraggiato lo sciopero generale, già convocato per il 3 ottobre. L’appelloper lo sciopero ha riguardato non solo quelli a favore dell’indipendenza catalana, ma ha acquisito un carattere più ampio, anti-repressivo e democratico. I leader dei principali sindacati, CCOO e UGT, e tutte le organizzazioni ufficiali e il governo catalano non potevano farsi vedere in opposizione aperta allo sciopero e quindi hanno avviato una manovra per cercare di annacquarne il contenuto.

Fu così dichiarata una “sospensione” in tutto il Paese, in cui i datori di lavoro e i lavoratori dovevano concordare reciprocamente le interruzioni del lavoro (in contrapposizione agli scioperi). Inoltre, è stata convocata una manifestazione di “unità” con l’intenzione di anticipare la convocazione di quelle organizzazioni che avevano convocato lo sciopero. In pratica, in molti luoghi di lavoro, la burocrazia di CCOO e UGT ha impedito lo sciopero. Nello stabilimento automobilistico della SEAT, distribuivano volantini che chiarivano che non stavano convocando uno sciopero!

Tutti questi tentativi sono stati vani, considerata l’enorme forza del movimento il 3 ottobre. Lo sciopero è stato osservato da una maggioranza di lavoratori nel settore pubblico, nella sanità e nell’istruzione e in misura più limitata nell’industria e nei trasporti. Le manifestazioni e i picchetti erano così massicci che hanno portato le città e le grandi città a fermarsi per tutto il giorno. A Barcellona, una folla impressionante ha riempito le strade, riempiendo le diverse manifestazioni che erano state convocate, sia ufficiali che non. C’era un forte sentimento di rabbia nei confronti della polizia, con massicce colonne di manifestanti in marcia verso gli alberghi dove erano alloggiati i rinforzi della polizia che erano venuti per impedire il referendum. L’atmosfera era chiaramente insurrezionale. Un autorevole commentatore borghese ha commentato: “Puigdemont ha perso il controllo della Catalogna, è la rivoluzione” – e non era molto lontano dalla realtà.

Un’indicazione di quanto avanzata fosse la situazione – e di quanto fosse preoccupata la classe do minante spagnola – è il discorso televisivo del re quella sera. Normalmente, la monarchia finge di essere al di sopra della politica di partito: un’istituzione neutrale che rappresenta “tutti gli spagnoli”. È uno stratagemma per coltivare la legittimità dell’istituzione in modo che possa essere utilizzata in modo più efficace in tempi di crisi nazionale grave. Questo era chiaramente il caso dopo il 1 ° ottobre. Il re ha tenuto un discorso pesante, senza fare concessioni formali di alcun tipo. Lo scopo di quel discorso era di unificare tutte le forze del regime contro il movimento repubblicano catalano e allo stesso tempo mostrare ai politici catalani piccolo-borghesi che non ci sarebbero state concessioni, quindi dovrebbero ritirarsi. Era, tuttavia, una strategia che aveva un grosso svantaggio: ogni autorità che la monarchia possedeva ancora in Catalogna è stata completamente distrutta.

Nei giorni tra il 1° ottobre e la sessione parlamentare del 10 ottobre, c’è stata una mobilitazione senza precedenti della borghesia catalana e dei suoi rappresentanti politici per fare pressione su Puigdemont per non dichiarare la repubblica. Ci sono state dichiarazioni pubbliche di tutte le organizzazioni padronali – così come i politici di CiU e PDeCAT Artur Mas, Duran, Lleida, Santi Vila e Marta Pascal – tutti mettevano in guardia contro una dichiarazione unilaterale di indipendenza. Puigdemont aveva due opzioni: capitolare e essere sfiduciato dal movimento, o andare avanti e essere sfiduciato dalla borghesia. Alla fine, non ha scelto nessuno dei due e ha cercato di ritardare l’esito.

 

Il popolo decide – Il governo vacilla

Così, la seduta plenaria del Parlamento catalano il 10 ottobre ha fatto una dichiarazione generica e ambigua sul mandato del referendum, usando un linguaggio volutamente poco chiaro in un tentativo errato di evitare azioni giudiziarie. E anche questa dichiarazione, che non diceva nulla di specifico, è stata dichiarata “sospesa” in attesa di una sollecitazione al governo spagnolo per il dialogo e la negoziazione.

Inoltre, la sessione si è svolta a porte chiuse, con il vicino Parc de la Ciutadella chiuso al pubblico, che ha allontanato ulteriormente i deputati dalle persone che li avevano votati e che avevano combattuto per il referendum. La piccola borghesia nazionalista era stata minacciata direttamente dallo Stato e non voleva più nessun incidente “tumultuoso” né alcuna possibilità di una reazione diretta da parte delle masse quando è stato annunciato che la dichiarazione della repubblica era stata sospesa.

La risposta dello Stato era prevedibile: un ultimatum veniva emesso il giorno seguente, l’11 ottobre, per chiarire la situazione, sotto la minaccia della sospensione dell’autogoverno catalano attraverso l’articolo 155 della Costituzione spagnola. La scadenza era il 16 ottobre. A quel punto l’allora primo ministro Rajoy poteva contare sul sostegno incondizionato del PSOE e dei suoi leader, specialmente dopo l’intervento del re.

La manovra di Puigdemont è stata anche un tentativo di forzare l’intervento dell’Unione europea e spingere lo Stato spagnolo a sedersi nei colloqui negoziali. Chiaramente, questa è stata una delusione. L’Unione Europea è un organismo capitalista interessato alla stabilità necessaria al profitto, e la rottura di uno stato importante ed economicamente fragile all’interno dei suoi confini non creerebbe un ambiente favorevole alle imprese. Durante l’intero processo, l’UE ha difeso risolutamente “lo stato di diritto”, che, nel caso della Spagna, include la sua unità indivisibile, garantita dalle forze armate.

Quando è arrivato il 16 ottobre, termine ultimo dell’ultimatum di Rajoy, Puigdemont ha risposto con una nuova tattica dilatoria e chiedendo ancora una volta dei negoziati. La strategia di Puigdemont e dei leader di JxSí era totalmente controproducente dal punto di vista del movimento di massa. Invece di fermezza, hanno mostrato indecisione. Invece di chiarezza, hanno creato confusione.

Da parte sua, il regime del ’78 ha agito in modo unito e fermo, senza arretramenti o esitazioni. Lo stesso giorno, il 16 ottobre, il giudice ha stabilito la detenzione preventiva senza cauzione per Jordi Cuixart e Jordi Sánchez. Questa è stata una decisione totalmente sproporzionata, ma che ha inviato un messaggio chiaro ai leader di JxSí: questo è il vostro destino se farete un ulteriore passo avanti.

Lo stesso giorno, ci sono stati cortei di massa e mezzo milione di persone sono scese in piazza a Barcellona sabato 21, chiedendo la libertà dei due Jordi, ma anche la proclamazione della repubblica.

Nel frattempo, i CDR, ora Comitati per la Difesa della Repubblica, per la prima volta hanno convocato una riunione di coordinamento nazionale di 200 rappresentanti a Sabadell e hanno iniziato a promuovere i propri slogan e richieste. La CUP si è anche espresso criticamente nei confronti dell’esitazione del governo. Va detto, tuttavia, che quando è arrivato il momento della verità, sembrava che la CUP vedesse il proprio ruolo come quello di fare pressione su Puigdemont , piuttosto che organizzare una leadership alternativa per il movimento. Tale leadership, basata sul rafforzamento dei CDR, sarebbe stata in grado di far avanzare la causa dell’autodeterminazione nazionale. Invece, la CUP ha accettato, anche se protestando, la sospensione della dichiarazione del10.

Le incertezze di Puigdemont hanno raggiunto l’apice nella notte tra il 25 settembre e la mattina del 26. Sotto l’enorme pressione della borghesia catalana e dei suoi rappresentanti più diretti all’interno del PDeCAT, e di fronte alla minaccia da parte del regime spagnolo di applicare l’articolo 155 (che era già stato annunciato il 21) e distruggere le istituzioni catalane decentrate, il partito nazionalista basco ha offerto un accordo che Puigdemont era disposto ad accettare. L’accordo era che Puigdemont avrebbe richiesto le elezioni catalane anticipate invece di dichiarare l’indipendenza. In cambio, lo Stato spagnolo non avrebbe applicato l’articolo 155 e forse avrebbe rilasciato i due Jordi (su cauzione). Puigdemont ha annunciato una conferenza stampa a mezzogiorno. Il mercato azionario ha reagito con un aumento.

Alla fine, tuttavia, l’accordo non è stato possibile. La pressione della base di JxSí (con due deputati che si dimettono e le dichiarazioni bellicose del leader del ERC, Rufián); la pressione opposta dalla Spagna (dove il PP era a sua volta sotto la pressione del Cs); ma soprattutto l’umore rabbioso della manifestazione di massa degli studenti, che hanno marciato per le strade di Barcellona quella stessa mattina e si sono diretti a Plaça Sant Jaume; alla fine ha fatto esplodere l’accordo.
Infine, venerdì 27, il Parlamento ha votato a favore della proclamazione della Repubblica e quasi contemporaneamente il Senato spagnolo ha autorizzato il governo ad applicare l’articolo 155 e a sospendere l’autogoverno catalano. La mattina di sabato 28 sono stati annunciati i termini dell’intervento spagnolo: un vero colpo di stato contro la democrazia, applicato con il sostegno incondizionato del PSOE. La dichiarazione della Repubblica catalana, tuttavia, era intesa come un atto puramente simbolico senza alcuna intenzione di metterlo in pratica. Il governo catalano si è riunito quella stessa sera ma non ha preso alcuna decisione. La bandiera spagnola ha continuato a sventolare al Palau de la Generalitat, il governo catalano è scomparso durante tutto il fine settimana e l’ordine di rimuovere la catena di comando nei Mossos è stato rispettato. Lunedì mattina, era chiaro che il governo catalano aveva proclamato la Repubblica, ma senza alcun piano per difenderla. Il presidente e alcuni ministri erano in esilio, altri sarebbero presto sfrattati dai loro uffici, convocati in tribunale e messi in detenzione preventiva senza cauzione. E tutto questo senza alcun tipo di resistenza, né alcun appello a difendere la repubblica appena proclamata.

 

Poteva essere difesa la Repubblica proclamata ?

È stato sostenuto che difendere la Repubblica avrebbe portato a un bagno di sangue che doveva essere evitato a tutti i costi. Questa ipotesi è falsa per molte ragioni. Per cominciare, questo è un argomento a favore del l’inattività totale. La costituzione del 1978, uno dei pilastri costituenti del regime, afferma chiaramente che l’unità della Spagna è garantita dalle forze armate. Pertanto, qualsiasi seria sfida al regime comporta la possibilità di uno scontro con l’esercito. Questa non è una minaccia a vuoto. In seguito è stato reso noto che lo Stato aveva piani dettagliati per entrare in Parlamento (per via aerea e attraverso le fogne con unità operative speciali) nel caso in cui un governo repubblicano si fosse barricato dentro. Ma questo era già noto. Chiunque sia serio a sfidare le fondamenta del regime del 1978 deve sapere, prima di iniziare, che questa possibilità esiste.

La conclusione che i dirigenti piccolo-borghesi di JxSí hanno tratto da questo è che era impossibile difendere la Repubblica. Si aspettavano, invano, che di fronte alla minaccia della violenza di Stato (e al suo uso il 1° ottobre), l’Unione europea intervenisse. Siccome non è successo, hanno pensato che tutto fosse perso.

Ma questa non è l’unica conclusione possibile, anzi. Ce n’è un’altra: per esercitare il diritto all’autodeterminazione, devono essere usati mezzi rivoluzionari. Cosa intendiamo con questo? Innanzi tutto, tutta la fiducia deve essere posta nell’organizzazione delle masse e nella loro capacità di prendere decisioni, e questa deve essere rafforzata. Solo se le masse rivoluzionarie sentiranno di avere il controllo del movimento, di avere dei leader di cui possano fidarsi, avranno l’audacia di andare fino in fondo. Ciò significa rafforzare i CDR, diffonderli in tutto il Paese e dotarli di una struttura democratica di delegati eletti per coordinarli a livello nazionale. Cioè, trasformarli in soviet: organizzazioni di rappresentanza e potere dei lavoratori. Le decisioni non dovrebbero essere prese al Palazzo della Generalitat, a porte chiuse, sotto la pressione e il ricatto della borghesia e con il “consiglio” di un ex presidente che avevamo già inviato alla pattumiera della storia (Artur Mas). Dovrebbero essere prese democraticamente dal movimento stesso dopo un dibattito aperto su diverse proposte.

In secondo luogo, devono essere prese misure che rendano la Repubblica un obiettivo pratico, per cui vale la pena lottare. Lo slogan del CUP in questo senso è del tutto appropriato: “Pane, casa, lavoro – repubblica”. Con una strategia chiara, quei settori della popolazione che sono ancora riluttanti, perché sono giustamente sospettosi degli ex leader del CiU e delle loro politiche di tagli e corruzione, possono essere conquistate nella lotta per una repubblica. In altre parole, la lotta per la repubblica deve acquisire un carattere sociale, oltre che democratico e nazionale. Queste due misure rafforzerebbero il campo repubblicano.

In terzo luogo, la forza dell’avversario deve essere indebolita tramite tutti i mezzi possibili. Questo può essere ottenuto facendo appello alla classe operaia e tutti i popoli della Spagna a sollevarsi con la Catalogna per rovesciare il regime del 1978 che ci opprime e ci sottomette tutti. Ciò significa collegare la lotta per la Repubblica catalana con la lotta contro la monarchia creata da Franco, la lotta contro l’impunità per i crimini del regime di Franco, contro la “Legge bavaglio”, la controriforma del lavoro e così via. Tale appello avrebbe un impatto molto potente e ostacolerebbe l’uso della repressione da parte dello stato. Inoltre, una chiara strategia in tal senso ci aiuterebbe a conquistare alla lotta per la repubblica quei settori della classe operaia in Catalogna che si sentono legati da legami familiari e culturali con la Spagna. Vale a dire, la lotta per la repubblica deve avere un carattere internazionalista.

Si potrebbe dire: “Sì, ma, nonostante tutto, hanno l’esercito e non esiterebbero a usarlo.” Sbagliato. Il regime reazionario del ’78 non esiterebbe a usare l’esercito, e nell’esercito non mancano gli ufficiali filo-franchisti disposti a offrire i loro servizi. Tuttavia, le loro intenzioni sono una cosa, quello che sono in grado di fare un’altra. In tutte le situazioni rivoluzionarie della storia, arriva un momento in cui l’apparato dello Stato si spacca. Ora festeggiamo 50 anni dal maggio ’68 in Francia, quando uno sciopero generale di 10 milioni di lavoratori impegnati in occupazioni industriali paralizzò il paese. A quel tempo anche De Gaulle e la classe dominante francese pensavano di usare l’esercito. Alla fine, non lo fecero per paura che, al primo scontro, l’esercito si sarebbe diviso e che i soldati si avrebbero fraternizzato con gli scioperanti. Di fronte a uno sciopero generale rivoluzionario con blocchi stradali, anche l’apparato statale è paralizzato. Un’indicazione di ciò che è possibile era evidente quando i portuali di Barcellona si sono rifiutati di rifornire le navi che trasportavano la polizia in Catalogna.

Questi sono i prerequisiti per la difesa della Repubblica: dare alla lotta un carattere democratico e di massa, darle un carattere sociale e internazionalista, e usare metodi rivoluzionari di lotta (sciopero generale, occupazione di fabbriche, blocchi stradali, comitati di autodifesa e così via). Questo non è mai stato contemplato dai leader piccolo-borghesi di JxSi alla guida del movimento. Questa non è una critica al coraggio personale e ai sacrifici fatti da alcuni di loro, che ora sono in prigione o in esilio. Il problema riguarda i loro limiti politici e strategici. Il 27 ottobre, dopo aver proclamato la Repubblica, cosa si sarebbe dovuto fare? Prima di tutto, il governo repubblicano catalano avrebbe dovuto approvare urgentemente i “decreti di dignità” (tutti i decreti del Parlamento bloccati dalla Corte costituzionale) e anche decreti per abrogare la legge bavaglio, la controriforma laburista, vietare gli sfratti, abolire le tasse universitarie, e tutta una serie di misure sociali e democratiche che avrebbero inviato un chiaro messaggio di quale tipo di Repubblica era stata proclamata e di cosa si trattava di difendere. In secondo luogo, si sarebbe dovuto fare un appello alla gente perchè rimanesse mobilitata nelle strade e a difesa degli edifici ufficiali. Questo avrebbe dovuto essere accompagnato da un appello a coprire il territorio con una fitta rete di CDR, in ogni città, in ogni quartiere e in ogni fabbrica. Questi comitati avrebbero dovuto convocare un’Assemblea Costituente nazionale e rivoluzionaria dei delegati eletti per nominare un governo repubblicano provvisorio. Questi CDR avrebbero dovuto essere resi responsabili per l’organizzazione degli affari quotidiani dell’amministrazione pubblica locale delle aree di quartiere (fornitura di beni e servizi, ordine pubblico, ecc.). E un appello fraterno avrebbe dovuto essere rivolto alla classe operaia e ai popoli dello Stato spagnolo a seguire l’esempio della Repubblica catalana. In breve: gli strumenti che avevano garantito il referendum, paralizzato il paese il 3 ottobre, e difeso con successo la sede nazionale della CUP il 20 settembre, avrebbero dovuto essere utilizzati. Tutto ciò non avrebbe garantito la vittoria in sé, ma avrebbe creato condizioni molto più favorevoli in cui difendere la Repubblica appena dichiarata.

Prima di discutere su come e in quale direzione procedere, dobbiamo discutere in modo calmo e sobrio le lezioni dell’ottobre repubblicano. Coloro che non imparano dalla storia sono condannati a ripetere i propri errori. E tutte queste lezioni sono concentrate in un punto cruciale: il movimento per la repubblica deve darsi una direzione degna delle conquiste e del sacrificio della gente; una direzione disposta ad usare i metodi rivoluzionari necessari per ottenere la vittoria.

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