Basta salari da fame! Un libro da discutere

Basta salari da fame! di Marta e Simone Fana ha il merito di mettere il dito nella piaga di una questione salariale ormai esplosiva. L’obiettivo politico è esplicito: sostenere la battaglia per l’introduzione in Italia di un salario minimo legale, che gli autori propongono sia fissato a 10 euro l’ora. L’argomento è ormai pienamente entrato nel dibattito politico, con le proposte depositate dai principali partiti (5 Stelle, Pd, Lega), nonché con lo scontro sindacale e giudiziario attorno a vertenze come quella dei riders.

Il testo mostra come in questi decenni la scala salariale in Italia si sia pesantemente aperta verso il basso. Sottosalario e sottoccupazione, uniti alla precarizzazione galoppante hanno creato un vasto settore di lavoratori per i quali avere un lavoro non è più garanzia di uscire dalla povertà.

Gli autori attaccano poi, con cifre e analisi, alcune delle teorie in voga nel mondo accademico e politico sulle cause di questa situazione: la pretesa che essa dipenda dalla scarsa qualificazione dei lavoratori in Italia, dalla scarsa produttività o dalle nuove tecnologie che invece, spesso, esigono precisamente lavoratori sempre meno qualificati, se non nella capacità di adattarsi alla flessibilità più estrema e a un comando asfissiante, umano o tecnologico, all’interno delle aziende.

Altrettanto condivisibile è il netto rifiuto della logica dello scambio con il cosiddetto “cuneo fiscale e contributivo”, ossia con quello che in fin dei conti altro non è che salario differito (malattia, pensione, assegni familiari, ecc).

Una tabella elaborata su dati Istat (2016) mostra una stima di oltre 2.300.000 lavoratori che percepiscono salari inferiori ai 9 euro lordi (compresi gli straordinari), diffusi non solo in settori “marginali”, ma anche nella manifattura (500.000), nella sanità e assistenza (156.000), nel commercio (335.000), ecc.

Come è noto l’idea di fissare per legge un salario minimo ha sempre incontrato la forte ostilità non solo dei padroni, ma anche dei dirigenti sindacali che hanno sempre sostenuto che una misura di legge avrebbe indebolito la contrattazione sindacale. Una tesi smentita dai fatti, e non a caso nel libro si cita una sentenza del 2016 che definisce “manifestamente insufficiente al lavoratore per condurre un’esistenza dignitosa e far fronte alle ordinarie necessità della vita” il minimo tabellare di 4,40 euro l’ora previsto dal contratto dei “servizi fiduciari” (portierato, vigilanza). Si potrebbero anche citare i 7,60 euro l’ora del contratto multiservizi, ampiamente impiegato in cooperative e imprese a cui vengono esternalizzati non solo servizi ma spesso anche intere parti del ciclo produttivo, come dimostrano molte lotte sindacali nel settore agroalimentare emiliano e non solo.

Era lo stesso argomento usato negli anni ’90 per giustificare l’abbandono della scala mobile che, sostenevano allora molti sindacalisti, “appiattiva eccessivamente” i salari deprimendo la contrattazione. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: una generazione, ormai quasi due, di ininterrotto peggioramento.

Il salario minimo non è certo una panacea, e gli stessi autori segnalano che se in alcuni paesi questo riesce effettivamente a costituire una sorta di “pavimento” che regge bene o male l’intera scala salariale, in altri – e in particolare si segnala la Germania – al contrario istituzionalizza l’esistenza di un mercato del lavoro segmentato, nel quale a un settore relativamente protetto dalla contrattazione sindacale fa da contraltare un settore crescente di lavoratori schiacciati ai minimi e anche peggio.

Detto dei meriti, ci pare invece inaccettabile la diplomatica reticenza con cui gli autori evitano qualsiasi critica al ruolo deleterio dei vertici sindacali in questo processo trentennale. Anche sul piano teorico l’impianto è lacunoso: basti dire che è pressoché assente un ragionamento sulla fase storica del sistema capitalista aperta dalla crisi del 2008. Debolezze importanti, che in molti passi rendono incoerente il discorso che oscilla tra una giusta rivendicazione del conflitto di classe e un tentativo di argomentare la “ragionevolezza” degli alti salari come motore del progresso economico e sociale. Né questa contraddizione si risolve invocando i vecchi maestri imbolsiti dell’operaismo come Mario Tronti (citato nel primo capitolo) che nel 1970 straparlava della pura lotta salariale come “esplosione del salario per rendere subalterno il capitale con i capitalisti dentro questa stessa società”…

Limiti seri che non vogliamo nascondere, ma che non ci trattengono dal considerare Basta salari da fame! un libro utile e una parola d’ordine sacrosanta, che il movimento operaio deve discutere e fare propria.

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