Autonomia, autodeterminazione, socialismo – Quali prospettive per la lotta del popolo kurdo?

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Autonomia, autodeterminazione, socialismo – Quali prospettive per la lotta del popolo kurdo?

La situazione in Kurdistan evolve a velocità accelerata. Mentre in Siria la conquista di Raqqa da parte delle Forze Democratiche Siriane (Fds), egemonizzate dai kurdo-siriani delle Unità di protezione del popolo (Ypg), è nella fase finale e infliggerà un ulteriore duro colpo all’Isis, nel Kurdistan iracheno il presidente e padre-padrone Massud Barzani ha convocato per il 25 settembre un referendum non vincolante sull’indipendenza, suscitando l’ostilità persino di Erdogan e del Governo turco, suoi alleati e principali acquirenti di petrolio ma timorosi di effetti a catena nel Kurdistan turco. Nel frattempo le necessità militari della battaglia di Raqqa contro l’Isis e la “corsa” tra il regime siriano – appoggiato da Russia e Iran – e la coalizione internazionale a guida Usa verso la conquista della provincia siriana ricca di petrolio di Deir Ez-zor hanno rafforzato la presenza militare statunitense sul terreno, nonché la cooperazione e l’armamento delle Fds.
Comprendere i legami tra questi processi e le prospettive di fronte al movimento nazionale kurdo è necessario non solo per dotarsi di una visione non parziale su quanto accade in Medio Oriente ma anche per cogliere le possibilità e le contraddizioni di una lotta che, nel Rojava (“occidente” in kurdo) ovvero l’area del Kurdistan assegnata dal trattato di Losanna del 1923 alla Siria, ha giustamente suscitato interesse e solidarietà in una parte consistente della sinistra mondiale.

 

La “nuova Dubai” in crisi

Il protratto crollo del prezzo del petrolio ha messo in difficoltà il governo della regione kurda dell’Iraq (Krg), retto dal Partito Democratico Kurdo (Pdk) del clan Barzani. Salutato negli anni 2000 da numerosi economisti come la nuova Dubai del Medio Oriente, il Kurdistan iracheno ha oggi un deficit statale record di circa 20 mld di dollari, tassi crescenti di povertà (14% della popolazione) e una frenata negli investimenti esteri. Inoltre, la scelta di Barzani – presidente de facto dopo la fine del suo mandato nel 2015! – di vendere in proprio il petrolio ha azzerato i trasferimenti statali dal governo centrale di Baghdad per pagare gli stipendi del milione di dipendenti pubblici: i salari, dunque, sono stati tagliati dal governo del Pdk di due terzi e arrivano spesso con mesi di ritardo. Numerosi scioperi sono stati repressi con l’utilizzo di ex-peshmerga (combattenti) divenuti forze di polizia fedeli alla cricca di Barzani o a quella non migliore dell’Unione Patriottica del Kurdistan (Upk) del clan Talabani.
Dentro una crisi sociale e politica in piena maturazione – il parlamento è stato chiuso per due anni -, l’accelerazione di Barzani sull’indipendenza potrebbe avere l’obiettivo di riaggregare consenso cavalcando un sentimento di ostilità verso il governo centrale iracheno non certo privo di ragioni; sul piano politico parlamentare, peraltro, il Pdk ha già incassato il riavvicinamento dell’Upk. La strada di Barzani non è, però, priva di rischi. La tensione con la Turchia, sebbene sia lungi dall’innescare rappresaglie economiche, s’aggiunge a quella con l’Iran, che accusa il Krg di tollerare gruppi di guerriglieri kurdo-iraniani impegnati in scontri con le forze del regime sciita di Teheran nelle zone di confine e ha definito il referendum un “complotto degli Usa”. Turchia ed Iran hanno esercitato pressioni contro il referendum perché ne temono le conseguenze destabilizzanti nelle zone kurde interne al proprio stato.
D’altra parte, il Governo iracheno, dominato da forze sciite e filoiraniane, osteggia anch’esso il referendum: il parlamento di Baghdad ha dato al primo ministro al-Abadi pieni poteri per impedire la consultazione. L’avanzata verso il confine siriano-iracheno delle milizie settarie sciite delle Forze di Mobilitazione Popolare, legate al governo iracheno, è al tempo stesso il tentativo di creare un corridoio “sciita” che si unisca alle forze di Assad attorno a Deir Ez-zor ma anche una pressione sul Kurdistan iracheno. Nel contenzioso col Governo di Baghdad, in aggiunta, ci sono divergenze sul destino di alcune aree a presenza kurda non incluse nel Krg, come ad esempio la città petrolifera di Kirkuk, che potrebbero generare lacerazioni esplosive. Con l’arretramento dell’Isis, peraltro, Kirkuk è oggetto di crescenti mire da parte di uomini d’affari arabi, un vero e proprio fiume di soldi in arrivo per costruire case, hotel, centri commerciali ecc.

 

La sinistra kurda e la questione nazionale

Il partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk, attivo in Turchia) e il suo alleato curdo-siriano del Partito dell’unità democratica (Pyd) sono, al momento, rimasti piuttosto prudenti rispetto al referendum nel Kurdistan iracheno, pur difendendo il diritto dei kurdi iracheni all’autodeterminazione. Il Pkk, sul campo, sta rafforzando la sua egemonia su Makhmur e alcune zone yezide dell’Iraq che i guerriglieri del partito di Ocalan liberarono nel 2014 dall’Isis.
Le basi teoriche dell’orientamento complessivo seguito dai dirigenti della sinistra kurda sono fornite dagli scritti concepiti nel carcere turco di Imrali da Ocalan, in particolare laddove il capo indiscusso del Pkk critica la concezione materialistica della storia e la nozione di lotta di classe proprie del marxismo in nome di un’alternativa che assomiglia, anche nelle intenzioni di Ocalan, al progetto di comunità rurale dei populisti russi (i narodniki) del XIX secolo. Come spiega al sito Carmilla Davide Grasso, ex-combattente internazionale delle Ypg, la dirigenza della sinistra kurda pensa che “ lo Stato sia qualcosa di negativo in sé ed è contradditorio chiederne uno”.
La contraddizione è palese: rifiutare la lotta per uno Stato kurdo significa riconoscere gli Stati esistenti, i cui confini tagliano a pezzi il popolo kurdo. Il radicalismo verbale del “rifiuto dello Stato”, così come l’abbandono esplicito della prospettiva socialista finiscono per partorire il topolino della “autonomia democratica” ovvero, nelle parole di Grasso, “il modo in cui il movimento del confederalismo democratico si concilia ogni volta con lo Stato esistente. Per esempio questi cantoni e i consigli cantonali che mantengono la separazione dei poteri, e in qualche modo assomigliano a uno Stato, sono l’autonomia democratica, cioè sono una proposta per la Siria per una sistemazione istituzionale che ponga fine alla guerra e, però, non cancelli la rivoluzione”. Non se ne esce: su questa strada non solo non ci sarà socialismo, ossia una vera emancipazione sociale dei lavoratori e dei contadini kurdi, ma neppure l’autodeterminazione.
Il rischio è che le lotte eroiche della sinistra kurda dissipino le loro energie. La prospettiva di un Kurdistan libero, unito e socialista, liquidata nel dibattito attuale, è invece di stretta attualità. Le lotte di massa del popolo kurdo, soprattutto in Turchia e in Siria, hanno espresso la volontà di un cambiamento rivoluzionario.
Senza nessuna forza di massa che si incarichi di portarla avanti, tuttavia, aumenterà lo spazio per demagoghi reazionari come Barzani, che non ha alcuna intenzione lottare per la liberazione nazionale di tutto il popolo kurdo ma vuole creare un’enclave che diventi un paradiso per i capitalisti, una “nuova Dubai” appunto. Uno o più staterelli che peraltro lascerebbero nell’oppressione la componente più consistente del popolo kurdo e quella che da generazioni ha pagato il prezzo più alto nella lotta per l’autodeterminazione, ossia quella costretta nei confini della Turchia.

 

Economia mista o socialismo?

Ma le stesse trasformazioni sociali delle zone kurde liberate sono frenate dalla strategia del confederalismo democratico. La partecipazione e lo spirito di sacrificio di decine di migliaia di giovani nella lotta contro l’Isis e per la costruzione di una società egualitaria e la lotta più che trentennale del Pkk in Turchia sono fonte d’ispirazione per chiunque si batta, nel resto del mondo, contro il capitalismo. Però, per non divenire uno stato de facto sotto la tutela Usa e per estendere la propria battaglia al di là dei confini della Siria, il movimento in Rojava ha davanti a sé alcuni nodi da sciogliere. In primo luogo quello di una rivoluzione sociale che sconvolga gli assetti proprietari. Al contrario, la “Carta del contratto sociale del Rojava” del 2014, spesso citata, tutela la proprietà privata e la inserisce in una sorta di economia mista. Al di là delle carte costituzionali, è questo il progetto sostenuto dalla dirigenza del Pyd, come rivendica per esempio il ministro dell’Economia del cantone di Afrîn Yusuf: “Stiamo sviluppando un sistema di cooperative e comuni. Comunque, ciò non prova che siamo contro il capitale privato. I due poli si completeranno l’uno con l’altro”. (https://cooperativeeconomy.info/efrin-economy-minister-yousef-rojava-challenging-norms-of-class-gender-and-power). Nelle condizioni di un’economia di guerra potrebbe sembrare ragionevole immaginare un controllo efficace del potere politico-militare sull’economia privata. Ma gli antagonismi di classe non farebbero che emergere con ancora più forza in un secondo momento soprattutto nel caso, auspicabile, di un alleggerimento dell’isolamento commerciale del Rojava. Il Rojava, infatti, consuma soltanto il 30% del grano che produce e avrebbe rilevanti possibilità di esportare nel resto della Siria non solo prodotti agricoli ed energetici (la raffineria del cantone di Cizire lavora oggi al 10% della propria capacità a causa del blocco) ma anche tessili. Potendo commerciare senza ricorrere al mercato nero, la debole borghesia del Rojava, soprattutto agricola e commerciale, rialzerebbe la testa.
E il ruolo politico e militare crescente degli Usa in Rojava non farà, ovviamente, che rafforzare un raggruppamento della controrivoluzione. Nonostante l’ira del tradizionale alleato turco, l’amministrazione Trump è in virata anti-iraniana in politica estera e continua a giudicare i vantaggi provenienti dal rapporto coi kurdo-siriani maggiori dei problemi generati dalle temporanee tensioni con la Turchia. Per questo la critica di Washington al referendum del 25 settembre è stata alquanto tiepida. Mentre continuiamo a sottolineare il carattere progressista delle riforme avanzate in Rojava – condizione della donna, formazione di migliaia di cooperative agricole, ruolo delle Case del popolo ecc. – e lo straordinario coraggio dei combattenti delle Ypg nella guerra contro i fondamentalisti islamici, pensiamo che l’alleanza militare con l’imperialismo Usa non possa essere in alcun modo relativizzata e sostenuta.
Non neghiamo che, in talune condizioni, si possano sfruttare le contraddizioni nel campo nemico. In questo caso, però, ci pare che la direzione del Pyd, ala politica delle Ypg e delle Unità di protezione della donna (Ypj), sia andata molto più in là di una temporanea convergenza militare. Questo, purtroppo, comincia ad esprimersi anche sul terreno degli orientamenti politici: di recente Ilham Ahmed, co-presidente del Pyd, ha dichiarato all’Ap che lo sforzo dei kurdi necessiterà, anche dopo la presa di Raqqa, del supporto politico e finanziario degli Usa; similmente, nel pieno della crisi tra l’Arabia Saudita e i suoi alleati, da una parte, e Qatar dall’altra, nel giugno di quest’anno la stessa Ahmed dichiarò che “l’Arabia Saudita è una potenza importante nella regione e deve giocare un ruolo nel promuovere la stabilità in Siria. Siamo pronti a cooperare coi Sauditi sulla Siria”. Non crediamo che queste prese di posizione costituiscano una semplice e magari astuta concessione verbale. Si tratta di dichiarazioni che testimoniano un allineamento della dirigenza del Pyd alla diplomazia Usa e una sorta di “campismo”: silenziare le critiche all’Arabia Saudita nella misura in cui tale potenza orribilmente reazionaria è in conflitto con un’altra potenza regionale, il Qatar, a sua volta troppo morbida con l’Iran – secondo gli standard della monarchia saudita – e alleata con la Turchia che è uno dei principali nemici del movimento di liberazione kurdo. Infilandosi in questi meandri, i kurdi non otterranno né la libertà né tantomeno il socialismo ma soltanto pugnalate alle spalle.

Liberazione nazionale e socialismo

La soluzione del problema kurdo non può risolversi dentro le frontiere del Rojava o del Kurdistan iracheno. La lotta per la liberazione nazionale kurda potrà realizzarsi soltanto sulla base di una rivoluzione sociale che unisca lavoratori e contadini di tutte le nazionalità e le confessioni religiose presenti nell’insieme del Kurdistan – e oltre – in Medio Oriente; in Turchia, ricordiamolo, decenni di lotta hanno sedimentato un livello di organizzazione e di coscienza decisivi per cambiare il clima politico in tutta la regione. Nessuna fiducia può essere riposta in alcuna potenza imperialista, nemmeno regionale. Questa prospettiva farebbe tremare tutte le potenze impegnate nel conflitto mediorientale e i loro lacchè del tipo di Barzani. Gli elementi più coscienti presenti nell’insieme della sinistra kurda hanno davanti a sé il compito storico di elaborare una strategia politica marxista e rivoluzionaria che si emancipi dal considerare il Kurdistan come una “comunità” non segnata da profondi antagonismi sociali, unendo i compiti della liberazione nazionale con quelli del socialismo.

Fonti: rudaw.net, aranews.net, cooperativeeconomy.info

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