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Afghanistan – Tra la sconfitta epocale degli Usa e la vittoria dei talebani

“Uno straordinario successo”. Così il Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha commentato il 31 agosto scorso l’evacuazione dall’Afghanistan dei militari e dei civili statunitensi.

Come si possa descrivere in termini entusiasti una fuga disperata da un paese occupato vent’anni prima per cacciare quelle milizie talebane che ora sono di nuovo al potere, è una delle meraviglie della propaganda.

Nelle ore frenetiche del ritiro, tredici marines americani sono stati uccisi da un kamikaze dell’Isis, mentre l’esercito a stelle e strisce ha commesso un ultimo “danno collaterale”, la strage di 10 civili (tra cui sei bambini) vittime della rappresaglia ad opera di un drone. Un’operazione che si aggiunge ai crimini dell’imperialismo che descriviamo accuratamente nell’editoriale.

Sono solo due fra gli ultimi episodi che smentiscono le parole di Biden, proprio mentre pronunciava il suo discorso. In realtà la ritirata dell’esercito più potente del pianeta dall’Afghanistan è una delle sconfitte più umilianti nella storia degli Stati Uniti. Molti hanno paragonato le immagini degli elicotteri che si levano in volo da Kabul per evacuare il personale dell’ambasciata Usa a quelle di Saigon, in Vietnam, nel 1975. Se consideriamo gli effetti sulla considerazione della forza dell’imperialismo Usa nel mondo, è un paragone azzeccato.

 

Il fallimento americano

Gli Stati Uniti, dal 2001, in Afghanistan hanno speso 2.300 miliardi di dollari in quello che è stato il primo capitolo della “War on terror” dopo gli attentati dell’11 settembre. Dopo l’Afghanistan, hanno invaso l’Iraq, sono intervenuti in Libia e hanno bombardato la Siria.
Il risultato di tutte queste avventure è un gigantesco zero. Tutti i sondaggi indicano che la maggioranza degli americani erano a favore del ritiro dall’Afghanistan, mentre nel 2001 l’88% era a favore della sua invasione. Non a caso lo stesso Biden ha dovuto affermare che “non è più il tempo di missioni all’estero”. Per un periodo, la politica militare americana dovrà giocoforza cambiare.

In Afghanistan gli Usa hanno impiegato fino a 100mila soldati (tra il 2010 e il 2012, gli anni del “surge” durante la presidenza Obama), appoggiati da altre decine di migliaia di truppe dei paesi della coalizione alleata (al momento del ritiro l’Italia aveva in Afghanistan 800 effettivi). Una forza militare significativa, che però non è riuscita in due decenni né a creare un governo stabile né delle forze armate afghane affidabili (nonostante gli Usa abbiano speso 83 miliardi di dollari in aiuti militari a Kabul!)

I presidenti succedutisi dal 2004 in poi, Hamid Karzai e Ashraf Ghani, non hanno mai goduto di alcuna legittimazione popolare. Erano puri e semplici pupazzi di Washington, il cui potere non si estendeva oltre i palazzi governativi di Kabul. L’esercito, formalmente forte di ben 300mila unità, si è squagliato come neve al sole.

L’imperialismo ha perso la guerra in Afghanistan diversi anni fa. La ragione fondamentale non è la potenza bellica dei talebani, ma l’opposizione della popolazione locale, un vero e proprio odio dopo decenni di occupazione che hanno devastato il paese e fatto decine di migliaia di morti.

Come spiegavamo nel 2008: “Alla fine le forze della Coalizione saranno costrette ad abbandonare il tentativo di occupare l’Afghanistan. Si lasceranno dietro una scia di morte e distruzione e un’eredità di odio e amarezza che durerà per decenni. (…)
Il terribile destino degli afghani è ancora un altro tra gli innumerevoli crimini dell’imperialismo USA e dei suoi alleati, La famigerata “Guerra al terrore”, lontana dal raggiungere i suoi obiettivi, ha avuto il risultato opposto. Tramite le loro azioni gli imperialisti hanno fornito uno slancio potente al terrorismo. Hanno gettato benzina sulle fiamme del fanatismo e perciò hanno avuto il ruolo del principale addetto al reclutamento per Al Qaeda e per i talebani. Nelle parole immortali, spesso citate dello storico romano Tacito: ‘Dove fanno il deserto, lo chiamano pace’.

L’amministrazione Usa era cosciente del proprio fallimento almeno dal 2013, anno in cui iniziarono le trattative di pace con i talebani, che controllavano già allora il 50% del paese. Questi colloqui, iniziati dall’amministrazione Obama, avevano il tentativo di creare un governo di transizione, al cui interno sarebbero stati inseriti sia politici fedeli all’Occidente che i talebani. Allo scopo, nel 2018 gli Usa hanno fatto pressioni per la liberazione del Mullah Baradar, cofondatore dei talebani, che consideravano un personaggio più malleabile con cui trattare il loro ritiro.

L’ex segretario di Stato Pompeo e Baradar

Le trattative si sono concluse a Doha, in Qatar, nel febbraio del 2020. Nell’accordo bilaterale, in cui gli Usa avevano deliberatamente escluso il governo di Kabul, Washington legittimava pubblicamente i talebani come interlocutori politici e si impegnava a lasciare il paese entro il 31 agosto scorso, mentre i Talebani si impegnavano a rompere con Al Qaeda e cessare tutte le violenze.

L’accordo di Doha ha rappresentato un chiaro via libera per i talebani, che si sono inseriti nel vuoto di potere reale lasciato dagli Stati Uniti. L’avanzata verso Kabul è stata velocissima. L’esercito afghano non ha opposto alcuna resistenza, mentre diversi signori della guerra, come Ismail Khan (il “leone di Herat”, la terza cttà del paese) sono scesi a patti con i talebani, garantendosi così il controllo delle proprie province.

I toni accorati e preoccupati dei governi occidentali sulle sofferenze degli afghani che cercavano disperatamente di lasciare l’aeroporto di Kabul nelle scorse settimane, equivalgono a lacrime di coccodrillo. È stato proprio l’Occidente a lasciare spazio ai talebani.
Il cinismo dell’imperialismo è il principale responsabile della tragedia dei profughi.

 

Le origini del fondamentalismo

D’altra parte è stato proprio l’Occidente a finanziare e sostenere le milizie fondamentaliste, durante tutti gli anni Ottanta e oltre, in chiave antisovietica. Ronald Reagan (presidente Usa dal 1980 al 1988) spiegava che “questi mujaheddin hanno nel loro cuore lo stesso spirito dei padri fondatori degli Stati Uniti”. Erano i “combattenti per la libertà” e uno di loro era… Osama Bin Laden. In realtà la loro legge era la sharia e il loro obiettivo era l’imposizione di una repubblica islamica.

Il fondamentalismo islamico moderno è stato creato negli anni cinquanta del secolo scorso, all’epoca delle rivoluzioni coloniali che scuotevano il mondo di religione musulmana, dall’Egitto all’Indonesia. La Cia, insieme ai servizi segreti di paesi della regione, come il Pakistan o l’Arabia saudita, sostennero e finanziarono i raggruppamenti islamici che potevano giocare un ruolo come forze reazionarie contro i regimi di sinistra e antiimperialisti. In Afghanistan, l’operazione dell’imperialismo iniziò nel 1978, per rovesciare il governo di Taraki insediatosi dopo la rivoluzione di “Saur” (Primavera) che minacciava gli interessi dell’imperialismo e poteva essere una fonte di ispirazione in tutta l’area.

Dopo la fine dell’Urss e la caduta del governo laico di Najibullah (evirato e ucciso nella pubblica piazza da questi “democratici”) questi cani da guardia dell’imperialismo si sono ribellati al loro padrone e hanno cominciato (sempre in nome della “guerra santa”) a scontrarsi fra di loro per il controllo del paese. I talebani sono una di queste milizie fondamentaliste che hanno prevalso sulle altre, anche grazie all’appoggio dei servizi segreti pakistani.

 

La forza relativa dei talebani

Dopo il primo periodo al potere, a causa della brutalità e delle atrocità commesse i talebani erano molto impopolari, soprattutto nelle città e fra le etnie non pashtun. Non hanno mai perso, tuttavia, l’appoggio del Pakistan e dell’Iran e sono riusciti a riorganizzarsi.

L’odio crescente verso l’occupazione degli Usa e dei loro alleati hanno spinto una parte di popolazione, soprattutto fra i pashtun, fra le braccia dei talebani. D’altra parte, ben pochi erano disposti a sacrificare la loro vita per il governo filoimperialista di Ghani. Oggi la presidenza di quest’ultimo e quella di Karzai sono descritte come un paradiso dai media occidentali, ma la Sharia era citata come fonte nella Costituzione del 2004 della Repubblica islamica dell’Afghanistan. Nel 2015, il 70% dell’industria, compreso quella estrattiva, era stato privatizzato (fonte usip.org). Se alla fine degli anni novanta la produzione di oppio era quasi azzerata, oggi il 90% dell’oppio del pianeta proviene dall’Afghanistan.

Non sorprende dunque che i talebani hanno rapidamente conquistato il paese. Tuttavia, questo non significa l’inizio di un regime stabile e duraturo.

I talebani non godono di un vero appoggio popolare. Il paragone con Saigon si ferma qui: in Vietnam gli Usa sono stati sconfitti da un movimento di massa di liberazione nazionale e sociale, in Afghanistan lasciano il campo a una milizia fondamentalista appoggiata da potenze reazionarie come Pakistan e Iran. La loro avanzata non è stata accompagnata da alcuna scena di giubilo. Nessuno è sceso in piazza, nemmeno nelle strade di Kandahar, loro roccaforte.
Non hanno fatto piazza pulita dei signori locali, ma hanno stretto accordi di non belligeranza. In questi giorni pare abbiano piegato la resistenza dell’Alleanza del Nord nel Panshir, ma non è affatto escluso che, sotto le pressioni dell’Iran, i mujaheddin tagiki stringano un nuovo accordo con Baradar e soci.

Le potenze che sostengono i talebani, come Teheran, Pechino e Mosca (ma anche l’Unione europea), vorrebbero un governo “inclusivo”. Anche se le prime nomine non sembrano andare in questa direzione, è probabile che i talebani faranno delle aperture.
È una prospettiva che potrebbe piacere anche a Washington, che si prepara a collaborare con i talebani nella guerra all’Isis-Khorasan. Questo lo scopo del recente viaggio a Kabul del capo della Cia, Burns.

 

Instabilità crescente

Il nuovo governo, quando nascerà, sarà debole e instabile, anche se non per questo gli attacchi alle donne e alle minoranze etniche e religiose diminuiranno. Gli “studenti coranici” compatti fino alla conquista del potere, sono divisi in diverse fazioni, quella militare di Haqqani e quella politica di Baradar. Dovranno dare spazio ai potentati locali e ai signori della guerra sponsorizzati dalle varie potenze regionali, e far ripartire uno dei paesi più poveri del mondo.

Nelle vicende di queste settimane abbiamo un chiaro sconfitto, gli Stati Uniti, ma nessuna altra potenza emerge
come vincitrice.

Cina e Russia cercano di influenzare il nuovo regime. La Cina è già il “nostro partner principale” e “rappresenta il nostro lasciapassare verso i mercati di tutto il mondo”, come ha dichiarato il portavoce dei talebani a Repubblica. Pechino, tuttavia, non potrà sostituire gli Usa, non disponendo nemmeno lontanamente di una forza militare simile. Un intervento russo è totalmente escluso per ragioni storiche. Putin è preoccupato di mantenere buone relazioni, soprattutto per evitare ripercussioni nelle ex repubbliche asiatiche dell’Urss che confinano con la Russia e che ospitano basi militari.

Altre potenze regionali, come la Turchia o monarchie del golfo come il Qatar cercano di influenzare il nuovo potere, ma i loro interessi si scontreranno inevitabilmente con quelli di paesi come l’Iran, che pure ha sostenuto l’avanzata talebana, avendo obiettivi contrapposti.

Ognuno di questi paesi finanzia e appoggia milizie e signori della guerra locali che non mancheranno di far valere gli interessi dei rispettivi sponsor.

Il paese che è stato più destabilizzato dalla guerra in Afghanistan è il Pakistan. I servizi segreti pakistani hanno letteralmente creato i talebani, e hanno continuato a sostenerli per tutti questi anni. Lo stato pakistano ha da sempre adottato la dottrina della “profondità strategica”, per la quale il controllo dell’Afghanistan è strategico per la sicurezza di Islamabad. Dopo il 2001, ciò ha portato a uno scontro con gli Stati Uniti, che oggi non considerano più il Pakistan come il principale riferimento della regione e hanno instaurato fitte relazioni con l’India, in chiave anti-cinese.

Oggi, con il sostegno economico e militare degli Usa in costante diminuzione, mantenere il controllo dell’Afghanistan è questione di vita o di morte per il Pakistan.

Questo breve quadro fa capire come l’Afghanistan rimarrà un terreno di scontro fra le potenze imperialiste regionali e mondiali e che nuovi conflitti, che potranno degenerare in una nuova guerra civile, saranno all’ordine del giorno.

La sconfitta degli Stati Uniti in un primo momento darà vigore ai gruppi fondamentalisti in tutto il mondo musulmano, tuttavia a medio e lungo termine acquista una valenza significativa per la lotta di classe.

Nessuna organizzazione politica fondamentalista, data la sua difesa del capitalismo, potrà mai garantire un futuro decente alle masse, né in Afghanistan né altrove. La débâcle dell’imperialismo sgombra altresì il campo dalla scelta, spesso obbligata per le grandi masse, di schierarsi o con i talebani o con l’imperialismo.

Apre una possibilità per il ritorno delle idee del marxismo fra i giovani e i lavoratori afghani e del resto della regione, a patto che si traggano le lezioni necessarie dagli avvenimenti di questi anni. La via d’uscita dalla barbarie fondamentalista si basa sulla sfiducia rispetto ad ogni potenza imperialista (che si chiami Usa, Cina, Russia o Iran) e sull’adozione di un programma rivoluzionario e di unità di classe fra tutti gli oppressi.

 

16 settembre 2021

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