A vent’anni dal G8 di Genova – Quali lezioni per chi lotta oggi contro il sistema capitalista?

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A vent’anni dal G8 di Genova – Quali lezioni per chi lotta oggi contro il sistema capitalista?

Sono passati vent’anni da Genova 2001. Fu proprio in quell’occasione il movimento no global raggiunse il suo apice, quando centinaia di migliaia di persone manifestarono nella città della Lanterna contro i potenti della terra, i G8 appunto, le otto grandi potenze che dominano ancora il modo.

Nei due decenni trascorsi, le ingiustizie e delle disuguaglianze, si sono enormemente approfondite. Secondo Bloomberg, i 20 uomini più ricchi del mondo hanno aumentato il loro patrimonio del 24% nel 2020 (1440 miliardi di euro), mentre nello stesso anno 115milioni di persone sono precipitate nella povertà più assoluta. I governi delle grandi potenze tutelano i profitti delle grandi multinazionali in maniera sempre più esclusiva. Sempre nel 2020, Pfizer, Johnson & Johnson e AstraZeneca hanno remunerato i propri azionisti con 26 miliardi di dollari, sufficienti per vaccinare 1,3 miliardi di persone.

Le ragioni per scendere in piazza contro multinazionali e governi a servizio della borghesia sono dunque ancora più forti oggi di allora.

Il movimento nelle giornate di Genova fu oggetto di una repressione inaudita. Le immagini dei pestaggi nella Caserma Diaz e delle cariche per le strade di Genova sono ancora vive e non necessitano di ulteriori commenti. I metodi repressivi delle “forze dell’ordine” non sono affatto cambiati tra il 2001 e oggi. I pestaggi nel Carcere di Santa Maria Capua Vetere da parte della Polizia penitenziaria ne sono una testimonianza drammatica.

Quello che forse molti ignorano è la sostanziale impunità goduta dagli esecutori materiali delle violenze e dagli alti gradi delle forze dell’ordine che le ordinarono nel 2001. Non è stato “possibile” identificare i picchiatori Diaz, mentre per i Capisquadra e i funzionari che avevano coperto i pestaggi il reato penale è stato prescritto. Prescrizione anche per la stragrande maggioranza dei 45 imputati tra poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici responsabili delle torture di Bolzaneto, in cui nella locale caserma di Polizia furono detenute per giorni centinaia di persone. Solo sette sono stati condannati ma non hanno scontato nemmeno un giorno di prigione.

Nessun colpevole, ovviamente, nemmeno per l’omicidio di Carlo Giuliani.

I principali responsabili della gestione dell’ordine pubblico in quelle giornate di luglio hanno fatto tutti carriera. La più clamorosa, forse, è stata quella del capo della Polizia di allora, Gianni De Gennaro: sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con Monti e poi Presidente di Finmeccanica.

Lo Stato, con tutti le sue istituzioni, governo, magistratura, forse dell’ordine, ha giustificato e coperto la “macelleria messicana” di Genova 2001, e si prepara a farlo anche con i fatto di Santa Maria Capua Vetere, al massimo colpendo in maniera simbolica alcune “mele marce”.

In occasione del Ventennale, non mancano come sempre i convegni, i libri e i servizi televisivi di ogni genere e da ogni parte politica. Come Sinistra Classe Rivoluzione saremo presenti alle iniziative di Genova 2021 in programma tra il 19 e il 21 luglio.

Se lo spirito di rivolta di quelle giornate rimane vivo ed è oggetto dell’interesse di molti che non vissero quegli avvenimenti, sono invece morte gran parte delle analisi di chi quel movimento lo diresse. Non a caso la gran parte delle iniziative di questi giorni sono promosse da figure politiche ormai sparite dalla scena.

Sull’argomento è tornato anche l’allora segretario di Rifondazione Comunista, Fausto Bertinotti. In un’intervista al Domani ci spiega che “la Sinistra è morta a Genova”. Sia quella riformista diventata “forza governativista”, sia quella radicale che “aveva provato ad immergersi nel movimento ma che non osò farlo del tutto”.

Le parole di Bertinotti sono omertose e semplicemente sconcertanti. La stagione di mobilitazioni in Italia non si fermò a Genova. Nel marzo 2002 tre milioni di lavoratori riempirono il circo massimo contro l’attacco all’articolo 18, nel 2003 a milioni le masse scesero in piazza contro la guerra in Iraq. Nel frattempo ci fu la straordinaria lotta di un’isola per salvare lo stabilimento di Termini Imerese in Sicilia nell’autunno 2002 e lo sciopero esemplare degli operai di Melfi nel 2004. E potremo andare avanti ancora.

Tutte queste mobilitazioni di massa furono sacrificate sull’altare della partecipazione al Governo Prodi da parte del gruppo dirigente di Rifondazione comunista, nel 2006. Fu proprio il tradimento delle aspirazioni di milioni di lavoratori per un ministero e una poltrona da Presidente della Camera (occupata dallo stesso Bertinotti) che porto all’espulsione della sinistra dal parlamento nelle elezioni del 2008.

Uno dei principali responsabili della morte di quella sinistra è dunque proprio Bertinotti.

Il problema di Genova 2001, come spieghiamo negli articoli che alleghiamo non è che la sinistra non si immerse abbastanza nel movimento, ma che mancò un’alternativa rivoluzionaria, che facesse avanzare il movimento stesso oltre la semplice critica dell’esistente, sviluppando un programma che mettesse al centro il ruolo della classe lavoratrice nella lotta per il rovesciamento del sistema capitalista.

Leggendo l’intervista di Bertinotti, non possiamo che cogliere l’unico aspetto positivo. È un bene che questi personaggi oggi non giochino più nessun ruolo nel movimento operaio e giovanile.

Le nuove generazioni di lavoratori e di giovani ricostruiranno le proprie organizzazioni di classe solo se sapranno fare tesoro degli errori commessi dai dirigenti del movimento di allora, spazzando via ogni illusione riformista e su ogni nuova filosofia “alla moda”, abbracciando e facendo proprie le idee e il programma del marxismo.

Proponiamo all’attenzione dei nostri lettori, qui di seguito, ampi stralci di un articolo di bilancio che abbiamo pubblicato nel 2011 e l’appello che diffondemmo vent’anni fa nelle settimane precedenti al G8, “Per la centralità della classe operaia nella lotta al capitalismo”.

Contro la crisi capitalista – Per un’alternativa rivoluzionaria

Dopo dieci anni torniamo a Genova. Quel movimento, che in realtà era nato a Seattle alle soglie del terzo millennio, ebbe il merito di riportare all’attenzione dell’opinione pubblica temi che sembravano totalmente dimenticati. Il capitalismo infatti dopo il crollo del muro di Berlino sembrava essere trionfante; i discorsi sulla “fine della storia” si sprecavano, e per fine della storia si intendeva, in realtà, la fine del conflitto e della lotta di classe.

Da Seattle a Genova tutto iniziò a cambiare. Centinaia di migliaia di persone contestarono il sistema di economia di mercato e la dittatura operata dalle sue istituzioni, dal G8 alla Banca mondiale fino al Fmi che con i loro provvedimenti gettavano sul lastrico interi paesi e popolazioni, come nel caso argentino. Fu un movimento di massa che mise in discussione i dogmi del pensiero capitalista, al di là delle definizioni di comodo date dai grandi mass media.

La repressione di ieri e di oggi

Le giornate di Genova le ricordiamo anche e soprattutto per la repressione scatenata dalle forze dell’ordine, che culminarono nell’assassinio di Carlo Giuliani. Dagli anni settanta non si ricordava un uso della violenza così generalizzato, ordinato dal governo Berlusconi (con Fini in cabina di regia) e approvato pienamente dalla borghesia italiana e internazionale. Tale comportamento aveva avuto la sua prova generale alcuni mesi prima, con le cariche alla manifestazione di Napoli targate centrosinistra. In quel luglio genovese noi tutti abbiamo visto (e subito sulla nostra pelle) il vero volto, feroce e spietato, dello stato capitalista, quando vede messe a repentaglio il consenso e la stabilità.

Non è stato un problema, dunque, di qualche “mela marcia”, come affermano ancora oggi alcuni giornalisti di area Pd. La controprova è data dal fatto che ad oggi alcuni responsabili materiali di quelle azioni sono stati sì condannati (anche in secondo grado), ma restano al loro posto se non sono stati  addirittura promossi. Per non parlare delle precise responsabilità politiche, che la magistratura non ha nemmeno sfiorato.

I fatti della Valsusa hanno riportato drammaticamente indietro la memoria, dimostrando che quando si parla di difendere gli interessi dei padroni, lo Stato ricorre sempre agli stessi metodi, con cariche, feriti ed arresti. Il restringimento degli spazi democratici non è un “hobby” per lorsignori, ma una necessità imposta dalle circostanze, cioè dal ritorno imponente delle lotte in questo paese.

Il problema del governo

Dopo dieci anni, le ragioni di coloro che scesero in piazza in quei giorni sono più vive che mai. Il capitalismo sta attraversando una crisi senza precedenti che fa sentire i suoi effetti devastanti non solo in qualche paese remoto ed esotico ma nel cuore dell’Europa. Oggi a rischio di bancarotta è la Grecia, e non è la sola. Il potere di vita o di morte che hanno le istituzioni finanziarie internazionali, le banche e le multinazionali è dunque più pericoloso che mai.

Allo stesso tempo aumentano le differenze tra un pugno di ricchissimi e la stragrande maggioranza della popolazione. Nel 2010 il 10% della popolazione mondiale deteneva l’85% della ricchezza prodotta nel pianeta, mentre la metà della popolazione della Terra ne possedeva meno dell’uno per cento. I tre uomini più ricchi del pianeta avevano capitali maggiori del prodotto interno lordo delle 84 nazioni più povere.

Dieci anni di distanza possono consentire di discutere a mente fredda delle ragioni per cui quel movimento si divise ed entrò in una paralisi definitiva. Un ragionamento che possa servire a far sì che le giornate di Genova 2011 non siano solo retorica celebrativa ma un passo in avanti per i movimenti di oggi.

Una delle convinzioni più comuni era quelle riassunta nello slogan “Voi G8, noi 6 miliardi”, vale a dire che bastasse far vedere che eravamo in tanti, e i potenti ci avrebbero ascoltato. La conseguenza erano le ipotesi di “riformabilità” di istituzioni come il G8, l’Fmi e l’Onu (in minoranza fra i manifestanti, ma in gran voga tra i leaders no global), insieme all’idea che si potesse far pesare la forza del movimento all’interno dei governi. Il principale difensore di tale strategia fu il gruppo dirigente del Prc, con a capo l’allora segretario, Fausto Bertinotti. Nel 2002 anche la Cgil e gli allora Ds diedero corda a questa ipotesi, nel Forum sociale europeo che si tenne a Firenze, dove l’istituzionalizzazione del movimento si impose nettamente.

I danni che ha recato alla classe lavoratrice questa impostazione sono noti a tutti. Non solo la sinistra non è riuscita a portare alcuna istanza del movimento antiglobalizzazione all’interno del governo Prodi, ma ha pagato il proprio distacco dalla base con l’espulsione dal Parlamento nel 2008.

Questo avviene perchè qualsiasi governo di destra, centro o sinistra che voglia restare all’interno dei limiti del capitalismo deve portare avanti attacchi allo stato sociale e alle condizioni di vita dei lavoratori. Non è più il tempo di mezze misure e lo vediamo chiaramente con quello che succede in Grecia o in Spagna, dove governi socialdemocratici sono i promotori di politiche di lacrime e sangue. (…)

Il ruolo della classe lavoratrice

Questo sbandamento sulla questione del governo si produsse anche perché grande era la discussione su quali fossero i soggetti del cambiamento. Prevalente era l’idea che la classe operaia non avesse più un ruolo centrale nel conflitto, perché indebolita dal punto di vista numerico, integrata nel sistema e frammentata da flessibilità e precarizzazione. Meglio puntare sulla “moltitudine” indifferenziata dei “cittadini”, sul lavoro “immateriale” che sfuggiva alla legge del valore di Marx e che poteva ribellarsi usando la sua creatività nella rete. Poco tempo dopo la cosiddetta new economy è entrata in crisi, come ciclicamente succede ad ogni settore dell’economia capitalista, e la rete è soggetta alle ferree regole dell’economia di mercato, eppure queste riflessioni, sviluppate da  Toni Negri e divulgate dai Disobbedienti di allora, ebbero un largo seguito all’interno di Rifondazione comunista e produssero un esodo di militanti dai Giovani comunisti verso quei lidi.

Oggi la situazione è ben diversa: chi può negare che i referendum di Mirafiori e Pomigliano, insieme alle mobilitazioni organizzate dalla Fiom, siano state il detonatore per la riscossa del movimento di massa, che ha avuto il suo riflesso  nelle urne, con la storica vittoria nei referendum del 12-13 giugno e nella sconfitta delle destre alle amministrative?

L’unità tra studenti e lavoratori non è rimasta uno slogan patrimonio di piccoli gruppi minoritari, ma si è imposta nella concretezza delle lotte dell’autunno scorso. La radicalità operaia si è trasmessa alle generazioni più giovani che il 14 dicembre non chiedevano il ritiro di una riforma o di un provvedimento iniquo, ma le dimissioni del governo.

Il ruolo della classe lavoratrice è stato essenziale anche nelle rivoluzioni tunisine ed egiziane, che hanno abbattuto regimi dittatoriali al potere da decenni. Sono stati gli scioperi massicci dei lavoratori a fianco delle piazze in rivolta a far comprendere a Ben Alì e a Mubarak che la partita era ormai persa. Sono stati avvenimenti di grande portata che hanno coinvolto tutto il mondo arabo e che ci dimostrano come “la rivoluzione è possibile”.

Sulla sponda opposta del Mediterraneo, ad Atene gli “indignati” di Piazza Syntagma hanno come principale rivendicazione lo “sciopero generale politico” volto a cacciare il governo Papandreu e il non pagamento del debito, misura che scardinerebbe l’intero impianto dell’Europa capitalista. D’altra parte il protagonismo della classe operaia greca si è ben dimostrato con tredici scioperi generali negli ultimi venti mesi.

Crisi capitalista, rivoluzione, ruolo della classe lavoratrice, sono i temi che crediamo debbano essere messi sul piatto nei dibattiti di Genova 2011. Sono i nodi da sciogliere per tutti anche nell’ambito di “Uniti contro la crisi” che da mesi è nei fatti paralizzata dalla mancanza di una discussione programmatica e dalla fumosità degli strumenti decisionali ed organizzativi che si è data.

Chiarendo che su questi temi è ben difficile che possa maturare un “consenso” tanto caro ai Social forum del 2001, che videro una straordinaria partecipazione di popolo durata mesi, tuttavia frustrata dalla non volontà di discutere e scegliere rispetto alle differenti posizioni in campo. La logica del consenso, che rifiuta il voto ed ogni forma di delega, rende infatti la discussione politica inaccessibile ai comuni militanti, mentre le vere decisioni vengono prese ben lontano dalle sedi assembleari. Oggi la gravità della situazione economica e sociale esige di mettere da parte ogni forma di diplomazia. (…)

Non basta dire “Noi la crisi non la paghiamo” ma bisogna aggiungere “che la crisi la paghino i padroni”. Questo è lo slogan che deve contraddistinguere le iniziative dei prossimi mesi. Se le banche impongono lacrime e sangue sulle nostre teste, devono essere nazionalizzate e poste sotto il controllo dei lavoratori. Se Marchionne e i suoi seguaci vogliono chiudere un qualsiasi stabilimento, si deve fare altrettanto.

Dopo dieci anni il movimento può e deve dotarsi di un programma che non solo dica no alle politiche dei governi europei ma che delinei un’alternativa complessiva al sistema capitalista. Se loro sono la crisi, la nostra soluzione deve essere la rivoluzione.

Luglio 2011

 

Per la centralità della classe operaia nella lotta al capitalismo

Un appello in vista del G8 di Genova 2001

Vent’anni fa, in vista della mobilitazione contro il G8, pubblicammo questo appello che, letto oggi, crediamo confermi tutta la sua validità.

Nel prossimo luglio si terrà a Genova il vertice dei G8. Come Seattle, Praga, Nizza e Genova sarà un appuntamento importante per tutti coloro che intendono manifestare la propria opposizione allo “stato delle cose”.

Il logo che compariva su “FalceMartelllo”, il nostro periodico all’epoca, che diffondemmo a Genova. (vignetta di Alessio Spataro)

Ereditiamo dal secolo che si è chiuso alle nostre spalle una concentrazione delle ricchezze in poche mani che non ha precedenti nella storia del capitalismo. Di converso cresce la massa della miseria, dell’oppressione, della schiavitù, del degrado, dello sfruttamento.

Le politiche liberiste inaugurate da Reagan e dalla Thatcher, che si sono diffuse in tutto il mondo nell’arco degli anni ’90, hanno inflitto un colpo durissimo al livello e alla qualità di vita dei lavoratori occidentali per non parlare di quelli del cosiddetto Terzo mondo.

Questa offensiva capitalistica è stata possibile per un concatenarsi di fattori:

1) La sconfitta dei movimenti anticapitalisti degli anni ’70, con la responsabilità determinante dei gruppi dirigenti dei partiti operai e dei sindacati e il conseguente riflusso che ne è seguito.

2) La crisi dello stalinismo, il crollo dell’Urss e la restaurazione capitalista nei paesi dell’Est che ha depresso la lotta di classe, paralizzando le organizzazioni storiche del movimento operaio, particolarmente quelle di matrice comunista.

3) La relativa stabilizzazione del capitalismo che si è giovato dell’apertura di nuovi mercati ad Est mitigando gli effetti della stagnazione prolungata iniziata nel ’73 -’74.

4) Un indebolimento progressivo della classe operaia che, abbandonata dalle proprie organizzazioni storiche, ha subito una riconversione industriale senza precedenti (esternalizzazioni, precarizzazione, ristrutturazioni) con l’espulsione indiscriminata dei migliori attivisti dai luoghi di lavoro.

5) Le politiche dei governi socialdemocratici europei, in certi casi con il sostegno dei partiti comunisti, e la collaborazione degli apparati sindacali, che hanno permesso alla borghesia di colpire le principali conquiste che i lavoratori ereditavano dagli anni ’70, provocando un clima di delusione e demoralizzazione nel movimento operaio che si è sentito tradito dai propri “dirigenti” storici.

Così negli ultimi vent’anni si è assistito in linea generale a un riflusso della classe operaia e a un crollo degli scioperi e della partecipazione politica e sindacale.

Iniziano tuttavia a intravvedersi i primi segnali di inversione: in America Latina, il nuovo millennio è stato inaugurato da una rivoluzione in Ecuador, da situazioni insurrezionali in Bolivia e Argentina e da una ripresa delle mobilitazioni in Brasile, Messico, Venezuela e Colombia.

Un processo simile è in corso in Asia, dopo la rivoluzione indonesiana che ha rovesciato il dittatore Suharto, ci sono state le lotte degli operai coreani e cinesi e quelle contro la globalizzazione capitalistica e i piani di aggiustamento strutturale del Fmi in Thailandia, India e Filippine.

Segnali di ripresa arrivano anche dall’Africa, particolarmente in Nigeria e Sudafrica e dal Medio Oriente.

Per quanto riguarda i paesi capitalisti avanzati c’è una ripresa delle mobilitazioni negli Usa con una serie di dure vertenze sindacali (Verizon, Ups, General Motors, ecc.) vinte dai lavoratori.

La situazione più arretrata è forse quella europea, con la parziale eccezione della Francia, anche se appaiono i primi segnali di reazione operaia alle politiche arroganti del grande capitale (si pensi alle lotte della Fiat in questi giorni, allo sciopero generale in Danimarca, alla lotta dei postali e degli autotrasportatori in Inghilterra, a quella dei telefonici in Spagna, alle manifestazioni politiche in Turchia).

Il “disgelo” in Europa è solo ai suoi inizi anche se gli attacchi continui al tenore di vita, il clima di insicurezza che si respira nella società e nei luoghi di lavoro inevitabilmente spingerà anche i lavoratori europei sul piede di guerra.

La globalizzazione del capitale avrà così l’effetto di globalizzare la lotta di classe.

Il movimento nato a Seattle può rappresentare un lievito importante in questa prospettiva; oltre a palesare l’iniquità del sistema capitalista, può fare breccia, contribuendo a rompere l’inerzia che frena il movimento operaio.

La gabbia delle burocrazie sindacali, che da difensori del mondo del lavoro si sono trasformate sempre più in artefici e gestori della liberalizzazione capitalista, mostra già le sue prime incrinature.

A Genova tra il 20 e il 22 luglio ci sarà una grande manifestazione in concomitanza con il G8, a quella manifestazione i sottoscrittori di questo appello aderiscono in modo convinto, ci saremo dando il nostro contributo di presenza e di proposta politica.

La nostra presenza si propone però di evidenziare un limite fin qui registrato. Parafrasando la massima di Marx facciamo notare ai compagni e alle compagne del movimento anti-globalizzazione che “non basta criticare il mondo, il compito dei rivoluzionari è quello di cambiarlo”.

Il movimento, che al proprio interno ha un carattere plurale, ha visto fino ad oggi prevalere quelle concezioni che svicolano da questa questione e così facendo non offrono una prospettiva, uno sbocco politico alla contestazione.

In generale c’è una sottovalutazione del ruolo della classe lavoratrice, che invece di essere integrata, residuale, scomposta e frammentata ha oggi un ruolo ancor più centrale in un vero progetto di trasformazione della società.

Quando un intellettuale fortemente impegnato in questo movimento come Revelli dice che è superato il paradigma novecentesco e che bisogna individuare i nuovi luoghi, gli spazi e gli strumenti del conflitto nel terzo settore, nell’economia sociale (individuati come organismi di contropotere), e si sforza di “superare” la lotta di classe opponendogli una generica lotta della società civile, con proposte come quelle dello sciopero di cittadinanza, ci pare vada decisamente fuori strada.

Come dimostra l’evidenza, il terzo settore si sta convertendo in una nuova forma di sfruttamento, non a caso gran parte delle Onlus e delle aziende del cosiddetto mercato sociale hanno sostenuto la legge Bassanini e “il principio di sussidiarietà”, vero e proprio grimaldello attraverso cui passa lo smantellamento dello stato sociale.

Inoltre quando si parla di sciopero di cittadinanza ricordiamo che cittadini lo siamo tutti: ci rivolgiamo ai cittadini banchieri, agli speculatori, ai finanzieri, ai padroni oppure ai lavoratori dipendenti, ai giovani proletari, ai pensionati, le casalinghe, i disoccupati, le classi subalterne che rappresentano la grande maggioranza della società?

Oggi i lavoratori dipendenti non solo non vanno scomparendo come qualcuno sostiene, ma sono una classe numericamente in forte ascesa: i proletari nel mondo sono oltre due miliardi, i lavoratori più “classici” del settore industriale sono passati da 397 milioni nel 1980 a 520 milioni nel 1995.

Questa crescita negli ultimi vent’anni è stata particolarmente significativa in alcune zone del vecchio mondo coloniale (particolarmente Asia e America Latina) dove non a caso oggi vediamo svilupparsi i movimenti più radicali della classe operaia, ma anche in Occidente, il proletariato sta crescendo in termini numerici.

L’esperienza storica del ’900 ha dimostrato che sempre e soltanto nei momenti di ascesa del movimento operaio si assiste a una generalizzazione delle lotte e a un avanzamento dei diritti generali della popolazione, o se si preferisce della cittadinanza. Viceversa quando il proletariato è sulla difensiva c’è un arretramento in tutti i campi e un declino generale della civiltà umana.

È impensabile che attraverso atti di disobbedienza civile o di azione diretta di qualche “tuta bianca” si possa scalfire minimamente il controllo delle classi dominanti sulla società, queste azioni al limite possono giocare un ruolo ausiliario sempre che non entrino in collisione con la prospettiva della mobilitazione di massa.

Per inceppare i meccanismi capitalistici ci vuole ben altro. Poniamo la questione del ruolo indispensabile della classe lavoratrice in qualsiasi progetto di trasformazione sociale, non per una questione “morale” ma per il ruolo decisivo che oggi, più ancora che in passato, il proletariato gioca nel processo produttivo su scala internazionale.

Solo attraverso i metodi di lotta di questa classe (lo sciopero), i suoi strumenti tradizionali (l’organizzazione in partiti e sindacati di massa), le forme di democrazia dal basso che storicamente si è data (i consigli operai), si può battere il sistema.

Se i partiti e i sindacati tradizionali dei lavoratori non sono oggi strumenti utilizzabili a tal fine si tratta di cambiarli lottando contro le burocrazie, ma non abbandonando quanto di buono c’è nella tradizione di lotta del movimento operaio.

A meno che non ci si illuda che si possa combattere il mercato e i suoi organismi (Fmi, Banca mondiale, Wto, Ocse, ecc.) contrapponendogli forme di produzione extramercantili, che non sono mai esistite e che mai esisteranno nel capitalismo, come dimostra l’esperienza negativa del movimento cooperativo e più di recente quella del Terzo settore.

Il nostro è dunque un appello, che proponiamo come militanti politici, sindacali di diverse strutture. La manifestazione di Genova, come le tante che da Seattle, a Praga, a Nizza, l’hanno preceduta, può e deve diventare una manifestazione di massa di opposizione al capitale, alle sue istituzioni e alla sua politica. È necessario parteciparvi, ma la partecipazione pura e semplice non basta.

Intendiamo quindi impegnarci in due direzioni, e fare appello a tutti coloro che si riconoscano negli argomenti che qui abbiamo proposto, in base a un punto discriminante decisivo: la riproposizione del ruolo centrale della classe operaia e la lotta contro la società capitalista in tutte le sue varianti.

1) Nelle organizzazioni nelle quali militiamo, e in primo luogo nel Prc e nelle organizzazioni sindacali, affinché si mobilitino per la manifestazione di Genova (ponendo anche la questione dello sciopero, sia come forma di protesta contro il G8, sia come mezzo per garantire una maggiore partecipazione dei lavoratori alla manifestazione), perché si apra al loro interno una discussione a tutto campo sulla crisi di questa società e sulle alternative possibili.

2) Nel movimento antiglobalizzazione, affinché le sue strutture si orientino sistematicamente in primo luogo ai lavoratori e alle loro organizzazioni, assumendo un programma rivoluzionario di trasformazione sociale.

Ci impegneremo a costruire comitati che lavorino in questa direzione, e facciamo appello a tutti coloro che condividono queste posizioni a farlo assieme a noi.

La lotta alla globalizzazione non può non mettere in discussione il sistema capitalista che la genera, non è possibile costruire alcuna società “altra” o alternativa fino a quando il potere economico e politico si concentra nelle mani di un pugno di multinazionali.

La questione resta quella di sempre, la necessità della rottura rivoluzionaria e della conquista del potere da parte degli oppressi.

I lavoratori sono la classe fondamentale in questo processo, l’unica che dotata di un programma adeguato può dirigere un processo di mobilitazione teso ad espropriare le multinazionali e mettere la società sotto il controllo democratico delle classi subalterne nel quadro di una democrazia partecipata e consiliare e di una gestione collettiva della produzione e dell’economia.

Solo su questa base potremo mettere la parola fine sulla gran quantità di problemi che affliggono l’umanità, dalla guerra, alla fame nel mondo, alla distruzione dell’ecosistema, fino ad arrivare alla qualità dei cibi sulle nostre tavole.

Movimenti con caratteristiche simili a quello nato contro la globalizzazione in passato hanno anticipato esplosioni rivoluzionarie di proporzioni colossali, che andavano maturando sotto la superficie.

La molla è sempre più carica, spetta ai rivoluzionari cogliere questa sfida preparandoci ad orientare il processo nella giusta direzione, per la liberazione definitiva dell’umanità dal giogo del capitalismo e della globalizzazione.

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