8 novembre, Trump vs. Clinton – La crisi politica negli Usa
Pochi giorni fa, nel pieno della campagna elettorale, Hillary Clinton, candidata democratica alla Casa Bianca, ha dichiarato: “Sono l’ultima cosa tra voi e l’apocalisse”, dove il voi sarebbero gli elettori statunitensi, e l’apocalisse sarebbe la vittoria del candidato repubblicano, Donald Trump. Nonostante Hillary Clinton ostenti sicurezza, la preoccupazione è evidente.
Sicuramente la vittoria di Trump alle primarie repubblicane ha avuto un effetto dirompente. Imprenditore miliardario che ha basato le sue fortune – un patrimonio stimato in 4,1 miliardi di dollari – nel settore dell’edilizia e sostenuto tra gli altri dai grandi produttori di armi riuniti nella National Rifle Association (Nra, Associazione nazionale dei produttori di armi), Trump si presenta come il candidato di un settore minoritario della borghesia, che punta tutto sull’intensificazione delle misure protezionistiche per “salvare l’economia statunitense” (non a caso Trump si è dichiarato contrario alla ratifica del Ttip). Parallelamente, Trump raccoglie consensi nell’America rurale e nei settori più arretrati della classe lavoratrice, tra i disoccupati e la piccola borghesia impoverita, facendo leva sulla crescente rabbia sociale e proponendo a questa uno sbocco reazionario e razzista. La proposta di costruzione di un muro al confine con il Messico e le proposte di limitazione dell’immigrazione, specialmente nei confronti dei musulmani, sono tutte sparate demagogiche che vanno in questa direzione.
In molti paesi abbiamo visto una destra razzista e populista che erode la base di sostegno dei tradizionali partiti conservatori. Accade col Front Nationale in Francia, con Afd in Germania, Ukip i Gran Bretagna, ecc. Trump negli Usa rappresenta la medesima tendenza, e la sua candidatura ha scatenato una vera e propria guerra civile nel partito repubblicano: la borghesia statunitense negli anni si è sempre divisa più o meno equamente tra il sostegno ai repubblicani e ai democratici, di fatto due ali del medesimo sistema politico borghese. L’ascesa di Trump sulla crisi del Partito repubblicano ha rotto questo bipartitismo perfetto che durava da oltre duecento anni: infatti la maggior parte dei grandi finanziatori degli altri due candidati repubblicani alle primarie, Rubio e Cruz, sono passati dalla parte della Clinton, considerando Trump completamente inaffidabile.
Trump è visto con sospetto anche per le sue posizioni politica estera, che mescolano l’isteria anti islamica ai propositi di stringere buoni rapporti con la Russia di Putin, tanto da essersi guadagnato accuse isteriche di presunta “intelligenza col nemico” di Mosca.
La grande borghesia, dunque, fa quadrato attorno alla Clinton, unico candidato affidabile ai suoi occhi. Da membro del Congresso, ha appoggiato le missioni militari in Iraq e Afghanistan, e dunque si presenta come la garante dell’imperialismo statunitense. Oltre al “curriculum” politico, è stata nel consiglio di amministrazione di Walmart e successivamente del colosso Lafarge. Walmart è stata nel 2010 la prima multinazionale al mondo per introiti in assoluto, e ad oggi rimane la maggiore catena al mondo nella grande distribuzione organizzata, con un fatturato di 485 miliardi di dollari annui e più di due milioni di dipendenti, nota anche per la sua linea ferocemente antisindacale. La Lafarge, oggi fusa nel colosso LafargeHolcim, è un’azienda leader nella produzione di materiali edili. E a dimostrare che la Clinton è il candidato dell’establishment ci pensano gli stessi grandi borghesi: dall’endorsement del noto speculatore George Soros, uno dei trenta uomini più ricchi al mondo, fino ai palesi legami tra la Clinton e il gruppo bancario Goldman Sachs, che ha versato alla candidata democratica l’astronomica cifra di 675.000 dollari per tre discorsi da un’ora l’uno pronunciati davanti agli associati del gruppo.
Clinton riunisce quindi dietro a sé tutti i settori fondamentali del capitale Usa; ma proprio per questo la sua base sociale è tutt’altro che ampia. Sono infatti numerosi i sondaggi in cui la maggioranza degli elettori, dovendo scegliere tra Hillary Clinton e Donald Trump, dichiara che probabilmente non andrà a votare.
L’alternativa che esprimesse la voglia di cambiamento e la rabbia sociale poteva essere Bernie Sanders, che ha ricevuto quasi 13 milioni di voti alle scorse primarie democratiche, se avesse rotto con la Clinton e avesse lavorato per costruire un blocco socialista alternativo a democratici e repubblicani. Ma capitolando davanti alla Clinton lo scorso 12 luglio, Sanders ha tradito la base che lo ha votato alle primarie. Lo spauracchio del Trump “fascista razzista e sessista” è una foglia di fico che non copre la vergogna di questa capitolazione: Sanders aveva preso milioni di voti in nome della “rivoluzione politica contro la classe dei miliardari”, per poi sostenere la candidata prescelta da quegli stessi miliardari, come del resto hanno fatto i dirigenti dell’Afl-Cio, il sindacato in Usa.
Indipendentemente da quale candidato vincerà queste elezioni, la lotta di classe si intensificherà, e con essa la crisi del sistema politico Usa. Il nuovo Presidente degli Usa sentirà traballare molto presto la poltrona su cui dovrà sedersi, sotto la pressione dei grandi movimenti che si stanno sviluppando, non ultimo il Black Lives Matters, che riunisce giovani di ogni etnia che protestano contro le violenze della polizia. Solo a partire da questi movimenti, innervati anche da tutti coloro che hanno sostenuto Sanders alle scorse primarie democratiche, potrà nascere un partito di massa dei lavoratori che anche negli Usa alzi la bandiera dell’alternativa socialista a un capitalismo putrefatto.
(Questo articolo è stato pubblicato nel n.24 di Rivoluzione del 20 ottobre 2016)
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