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A 40 anni dal sisma in Irpinia – Il terremoto che ha cambiato tutto

In occasione del 40° anniversario del terremoto che sconvolse l’Irpinia, gran parte della Campania e la Basilicata, ripubblichiamo questo articolo di Vittorio  Saldutti scritto dieci anni fa e apparso sul nostro mensile di allora, FalceMartello.

Alle 19.36 del 23 novembre di trent’anni fa centinaia di migliaia di persone a mani nude iniziarono a scavare  tra case sbriciolate alla ricerca di qualche superstite rimasto lì sotto.  Non potevano immaginare che per loro il peggio sarebbe dovuto ancora venire, che quella sera iniziava un’odissea che non è ancora finita. Un minuto e mezzo prima la terra aveva tremato in Irpinia con un’intensità e una durata che aveva paragoni solo con il terremoto di Messina del 1908 nell’ultimo secolo, annientando centinaia di paesi,  uccidendo 2914 persone, lasciandone  280.000 senza casa.

In verità non molte di quelle che caddero si potevano definire case. La zona del sisma era divenuta un caso nazionale appena dieci anni prima, quando in parlamento si era discusso della condizione in cui versavano alcuni comuni della zona, ancora, siamo negli anni settanta, privi di acqua e corrente elettrica nelle case. Fino ad allora l’Irpinia aveva prodotto solo emigranti, prima per l’America, dopo la guerra per la Svizzera e la Germania, ma dopo essere stata l’epicentro del terremoto che da lei prese il nome, pur avendo colpito anche la Basilicata e la provincia di Salerno, divenne l’epicentro della politica e dell’economia italiana. Pochi giorni prima gli operai avevano subito una storica sconfitta a Torino e si era definitivamente invertita l’onda delle lotte che aveva segnato il decennio precedente. Il terremoto fornì un laboratorio di sperimentazione per nuove pratiche di sfruttamento del territorio e del lavoro. Fu il primo prato verde in cui applicare una nuova organizzazione del lavoro.

Il terremoto diede l’opportunità ai padroni italiani di far ripartire la storia in un luogo che non aveva quasi conosciuto lotta di classe. Inoltre forniva inaspettatamente alla borghesia una scusa e una teoria. I soccorsi arrivarono in molte zone dopo diversi giorni, nell’epicentro dopo 5, mentre dalle macerie i gemiti dei sopravvissuti diminuivano lentamente, fino a scomparire. L’entità del disastro, le innegabili responsabilità dello stato nei ritardi, le condizioni di miseria precedenti al terremoto in cui versava l’area fecero sì che nel paese si diffondesse facilmente l’idea che dovesse esservi un risarcimento per quelle popolazioni. A ciò si unì la proposta di trascinare fuori dalla povertà una zona del paese procedendo ad una specie di industrializzazione forzata. Iniziò così la lunga pagina della ricostruzione. Difficile non vedere che c’è un prima del terremoto ed un dopo.

Prima non c’era una struttura di protezione civile, che nacque grazie ad essa. Dal terremoto si sarebbe dovuto innanzitutto imparare che le catastrofi naturali devono essere prevenute pianificando  un intervento che ne limitasse il più possibile le conseguenze. Quanto questo non sia avvenuto è stato reso evidente dal terremoto dell’Abruzzo di due anni fa, in cui case di recente costruzione sono venute giù come fossero di burro. In compenso il governo proprio in questa occasione ha potuto mostrare come sia efficiente la protezione civile a recuperare corpi di persone morte a causa della sua insipienza. Nella Campania del dopo terremoto la logica imperante era quella del fare, senza considerare il come e il perché fare le cose. Chi ha vissuto in quella terra ha assistito all’esatto opposto della pianificazione. Non contava capire quali fossero le infrastrutture utili al territorio, come ricostruire i paesi, l’importante era fare, magari in grande, in modo che i soldi spesi fossero di più e girasse più olio nella macchina delle tangenti e del malaffare che si era insediata sul territorio. Le strade d’irpinia sono state le madri dei ponti sullo stretto e delle tav che oggi il padronato italiano vorrebbe piazzare a destra e a manca con la stessa scusa con cui vennero costruite quelle: bisogna dare infrastrutture per lo sviluppo e poco importa quale sviluppo e quali sono le conseguenze sul territorio.

Prima, negli anni Settanta, si era conquistato il contratto nazionale, dopo iniziò un lento ma progressivo attacco ad esso. Oltre case e strade in Irpinia bisognava costruire industrie. Questa semplice idea fu applicata concedendo una legislazione di vantaggio per chi investiva nella zona disastrata. Contratti ipervantaggiosi, infrastrutture on-demand e intere fabbriche regalate dallo stato, che le concedeva sulla fiducia con un piccolo incentivo economico per avviare l’attività. Vennero costruite 20 zone industriali tra Campania e Basilicata, in cui spiccano gli stabilimenti Fiat di Pratola Serra (AV) e Melfi (MT). La stragrande maggioranza delle fabbriche sono state abbandonate dopo pochi mesi di apertura, quando i padroni avevano intascato i contributi a fondo perduto, che, appunto, andarono perduti, come i posti di lavoro promessi alle migliaia di giovani, che dalla metà dei Novanta ripresero ad emigrare con ritmo simile agli anni Sessanta.

Prima la criminalità organizzata lucrava per lo più sulla gestione delle attività illecite, poi ne scoprì altre ancora più redditizie. Nei giorni dopo il sisma le strade residue dei territori terremotati furono invase da un via vai di mezzi di ogni tipo, il caos regnava sovrano e la camorra capì che quello era il luogo ideale per iniziare lo sversamento massiccio di rifiuti di ogni tipo, dando l’avvio ad uno dei settori che alla lunga si è dimostrato più vantaggioso, ossia lo smaltimento di rifiuti tossici. L’ovvia conseguenza fu un’altrimenti inspiegabile impennata delle incidenze tumorali in diverse zone della Campania. La ricostruzione poi richiedeva una quantità di cemento e materiali edili che divenne facile per le mafie tuffarsi in un affare miliardario che consegnò loro nel giro di pochi anni il monopolio sul settore. Il cosiddetto irpiniagate, vale a dire l’ondata di inchieste che rivelarono le connessioni tra camorra, imprenditori e politici che gestivano la ricostruzione mise in luce il progressivo saldarsi di interessi tra padronato, stato e mafia che divenne strutturale negli anni seguenti.

A pagare le conseguenze di questa catastrofe furono innanzitutto i terremotati. In alcune zone i prefabbricati, le abitazioni provvisorie, sono stati smantellati tra la metà e la fine degli anni Novanta, molti edifici e strutture non sono ancora stati ricostruiti o restaurati. Interi paesi sono stati smembrati per praticità e spostati in new towns che hanno fatto la fortuna di alcuni padroni ma hanno distrutto comunità che sono state sradicate e deportate come se fossero colpevoli di vivere in quella zona.  Il baratto tra devastazione e sviluppo ha portato solo il primo, mentre il secondo è rimasto una chimera, poiché la disoccupazione è tornata a livelli presisma, anche se i contratti di lavoro, quelli no, sono assolutamente da zona franca dai diritti.

Il bilancio dei trent’anni trascorsi non può essere più catastrofico, ma soprattutto da quella lezione sembra che non si sia imparato nulla, né in termini di prevenzione delle catastrofi, né in termini di come si debbano pianificare grandi processi economici come le ricostruzioni, né sul tipo di sviluppo economico di cui ha bisogno un territorio arretrato. Questa è la più grande sofferenza per chi ha vissuto quell’esperienza, vederla ripetere in maniera sistematica oggi in Abruzzo. Il nostro compito è apprendere le lezioni di quella che fu una sconfitta per i lavoratori italiani e del mezzogiorno in particolare e tramutarle in lotte che impediscano il loro ripetersi, che metta a nudo la barbarie di un sistema economico che specula senza pietà sulla pelle delle persone.

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