2019: anno nuovo, crisi nuove.
16 Gennaio 2019
Il governo Macron è sull’orlo del baratro… Prepariamo lo sciopero generale!
18 Gennaio 2019
2019: anno nuovo, crisi nuove.
16 Gennaio 2019
Il governo Macron è sull’orlo del baratro… Prepariamo lo sciopero generale!
18 Gennaio 2019
Mostra tutto

2019: nuovo anno, nuova crisi

Mentre entriamo nel nuovo anno, il mondo sta affrontando una svolta decisiva. La crisi del capitalismo sta raggiungendo un nuovo stadio – uno stadio che minaccia di rovesciare tutto quell’ordine mondiale esistente che è stato dolorosamente messo assieme dopo la Seconda guerra mondiale. A 10 anni dal crollo finanziario del 2008, la borghesia non è assolutamente vicina a risolvere la crisi economica.

Tutti i sacrifici e le rinunce degli ultimi 10 anni non hanno risolto la crisi, ma hanno solo aumentato la sofferenza, l’impoverimento e la disperazione delle masse, mentre una piccola minoranza di parassiti ha raggiunto livelli di ricchezza osceni. Ma in ultima analisi, la politica è economia concentrata. Un decennio fa avevamo previsto che tutti i tentativi dei governi di ripristinare l’equilibrio economico avrebbero solo contribuito a distruggere l’equilibrio sociale e politico. Lo vediamo in un paese dopo l’altro.

In Europa, abbiamo la crisi della Brexit che sta cucinandosi a fuoco lento – in sé un elemento altamente destabilizzante della situazione. Questo ha gettato la Gran Bretagna in una profonda crisi senza che ci sia in vista una fine chiara. Non molto tempo fa, la Gran Bretagna era forse il paese politicamente più stabile in Europa. Ora è uno dei paesi più instabili.

Qualche settimana fa su Channel 4 News, al noto commentatore politico conservatore Matthew Parris è stato chiesto se pensava che la crisi attuale fosse la più seria nella storia britannica. Ha risposto quanto segue:

“Ricordo la crisi di Suez del 1956. Quella fu una crisi molto seria e da allora ne ho viste altre. Ma sempre nel passato, per quanto profonda fosse la crisi, ho sempre avuto la sensazione che qualcuno, da qualche parte, avesse un piano – un’idea chiara di come uscire dalla crisi. Non ho più questa sensazione. “

Tra poco più di una settimana, il Primo ministro britannico, Theresa May, presenterà al Parlamento britannico il suo sfortunato accordo per l’approvazione. Le sue possibilità di successo sono praticamente nulle. Ma, con la sconfitta dell’accordo raggiunto così dolorosamente con la UE, cosa succederà dopo? La possibilità che la Gran Bretagna lasci la UE senza un accordo è una ricetta fatta e finita per un caos economico, sociale e politico senza precedenti – non solo in Gran Bretagna, ma in tutta Europa.

È una misura della completa bancarotta dell’establishment politico britannico che un tale scenario possa anche solo essere contemplato. Ma il tempo stringe e la Gran Bretagna sta finendo il tempo. Qualunque alternativa venga proposta sarà disastrosa. L’unica incognita è l’entità del disastro. In ogni caso è tutto pronto per un periodo molto tempestoso per la Gran Bretagna.

Ma la crisi dell’Europa non finisce qui. In Germania, che per decenni è stata la vera forza motrice dell’economia europea, il lungo dominio dei due principali partiti politici – i democristiani e i socialdemocratici – è ai titoli di coda. La rinuncia di Angela Merkel alla posizione di leader della Democrazia Cristiana è solo stato un sintomo delle tensioni politiche sotto la superficie che sono l’avvisaglia di una crescente polarizzazione sociale.

Lo stesso fenomeno si può osservare in molti paesi. In Francia, la vittoria elettorale di Emmanuel Macron è stata presentata come una grande vittoria per il centro politico. Come San Giorgio e il Drago, Macron è miracolosamente scese dalle nuvole per uccidere il Drago malvagio dell’estremismo di sinistra e quello di destra. Ma non ci è voluto molto perché l’uomo che si credeva che camminasse sull’acqua, sia affondato sotto le ondate tempestose della lotta di classe.

Le illusioni assurde dei commentatori politici che vedevano in questo piccolo politico narcisista un salvatore, non solo per la Francia ma per l’intera Europa, sono evaporate come una goccia d’acqua su una stufa calda. Il crollo della popolarità di Macron è stato molto più rapido e catastrofico di quello del suo sfortunato predecessore, François Hollande. I sondaggi che gli davano un appoggio di più del 70% al momento della sua elezione, a dicembre erano inferiori al 20%.

Questa svolta drammatica è il risultato diretto di qualcosa che si supponeva non potesse accadere: l’azione rivoluzionaria diretta delle masse. Nel giro di poche settimane, i lavoratori e i giovani di Francia sono riusciti a demolire la falsa immagine di invulnerabilità del presidente francese, che si è ridotto a implorarli di permettergli di governare. L’uomo che si vantava che non si sarebbe mai arreso alle “piazze” è stato costretto a compiere un’inversione di rotta umiliante. Alla fine, però, questo non sarà sufficiente per salvarlo.

Francia e Germania

Per decenni, il destino dell’Europa è stato deciso da due paesi: Francia e Germania. All’inizio, la classe dominante francese, con il suo esagerato senso di importanza, voleva legare a sè la Germania, procurando così le basi economiche per un’Europa unita, mentre la Francia avrebbe fornito la leadership politica. Una vana speranza! Alla fine, è il potere economico che decide la politica, non viceversa.

Oggigiorno, solo un pazzo può non capire che è la Germania, non la Francia, a decidere su tutte le questioni fondamentali in Europa. L’ambizione di Macron di dare ordini a Berlino (e anche a Washington!) si è velocemente rivelata come quella ridicola illusione che è sempre stata. La crisi della Merkel non servirà ad aumentare il potere e l’autorità del presidente francese, che ora si trova nella posizione poco invidiabile dell’imperatore che mostra la sua nudità fingendo di indossare abiti nuovi. Anche quando si nasconde dietro ad una scrivania dorata, la sua nudità politica è chiara a tutti.

La crescente divisione tra Francia e Germania non si basa né su principi religiosi, morali, filosofici o umanitari, ma sul denaro sonante, che sotto al capitalismo costituisce la vera forza motrice della società al posto del cuore e dell’anima. In condizioni di crisi del capitalismo, non c’è modo che questa divisione possa essere sanata e minaccia di provocare una crisi d’identità nel cuore stesso dell’Unione europea.

Macron mostra la più toccante simpatia per i problemi dell’Italia e di altre nazioni del Mediterraneo che sono purtroppo prigioniere del debito negli ultimi anni. Avvolgendosi nella bandiera della solidarietà europea, prega l’UE di mostrarsi umanitaria e generosa. Dopotutto, non è stato proprio nostro Signore a dire: “rimetti a noi i nostri debiti”?

È risaputo che pochi piaceri nella vita possono essere paragonati all’arte di spendere i soldi degli altri. Quando Macron chiede il perdono del debito, è ben consapevole che coloro che devono perdonare non si trovano a Parigi, ma a Berlino e quelli che tirano le fila della Bundesbank non sono eccessivamente entusiasti di perdonare i debiti, o qualsiasi altra cosa, come il popolo della Grecia può testimoniare volentieri.

Nel suo stesso paese, Emmanuel Macron, il presidente dei ricchi, era deciso a portare avanti una politica di drastici tagli insieme a sgravi fiscali per i ricchi. Ma la resa di Macron ai manifestanti dei gilet gialli (ha promesso un pacchetto da 10 miliardi di euro), significherà che il deficit di bilancio della Francia è destinato, come quello italiano, a superare i limiti consentiti dall’Eurozona. Questo fatto va in qualche modo a spiegare i diversi atteggiamenti adottati dai governi di Francia e Germania.

Tutti i fattori si combinano per accentuare le tendenze centrifughe, aggravando quelle stesse contraddizioni e tensioni tra le nazioni per prevenire le quali la Ue era stata fondata. Per gettare benzina sul fuoco abbiamo la crisi latente causata dall’enorme massa di rifugiati che bussano alle porte dell’Europa. Questo ha aperto, a sua volta, nuove linee di rottura tra la Germania e i suoi satelliti dell’Europa orientale.

La Polonia e l’Ungheria sono in uno scontro diretto con l’Unione Europea sulla questione dell’immigrazione, appoggiate nelle retrovie dal governo di destra austriaco. In Germania, il partito reazionario contro l’immigrazione di Alternativa per la Germania (AfD) sta guadagnando terreno, in particolare in quattro stati della Germania orientale.

Tutto è pronto, dunque, per un grande dramma politico in Europa. La crisi della Brexit non è che un assaggio. La visione federalista dell’Europa è affondata senza lasciare traccia. Lungi dal dirigersi verso una maggiore unità, l’Unione europea si sta frammentando proprio davanti ai nostri occhi.

Emergono nuove linee di frattura

Le tensioni politiche tra Francia e Germania sono solo un’espressione superficiale di profonde divisioni economiche tra il nord e il sud dell’Europa. Di recente, è emerso un nuovo blocco – una nuova linea di frattura a fianco di molte altre crepe che minacciano di spaccare l’Unione Europea. Alcuni l’hanno ribattezzata la nuova lega anseatica, richiamandosi al potente gruppo di stati mercantili attorno all’area baltica che ha dominato gran parte della vita finanziaria dell’Europa nel periodo medievale.

Si è aperta una voragine tra i paesi più poveri dell’Europa meridionale e le economie più prospere del nord. La Danimarca, la Svezia, la Finlandia, l’Estonia, la Lettonia, la Lituania, i Paesi Bassi e l’Irlanda sono paesi relativamente piccoli nel più ampio contesto europeo, ma si sono messi assieme per resistere alle pretese dei paesi dell’Europa meridionale sul bilancio europeo per coprire i loro ingenti disavanzi.

Dopo anni di austerità, tagli e terribili sofferenze, la Grecia è stata ridotta in rovina dalla stretta di Berlino e Bruxelles. Nulla è stato risolto e la crisi si è ora diffusa in Italia, dove il debito accumulato ammonta al 130% del Pil. La coalizione anti-Ue a Roma ha approvato un bilancio che ha violato i limiti imposti da Bruxelles, provocando uno scontro aperto. Per il momento, le crepe sono state nascoste. Ma la crisi dell’Italia rimane e ha implicazioni ben più gravi per l’Ue di quanto non ne abbia mai avute la Grecia.

Detto questo, la Grecia è un’economia relativamente piccola nella periferia dell’Europa. Al contrario, l’Italia è la terza più grande economia dell’Eurozona. Il governo italiano sperava che pompando denaro nell’economia, avrebbe stimolato nuovamente la crescita. Ma se il Tesoro italiano fosse stato costretto a pagare multe enormi, qualsiasi impatto avrebbe potuto avere la spesa extra sarebbe stato cancellato.

Davanti a un fucile puntato, Luigi Di Maio, il leader dei M5S e Matteo Salvini della Lega Nord, hanno preferito usare la prudenza, hanno inghiottito l’amaro boccone e gettato la spugna. Alla fine, hanno raffazzonato un accordo traballante. La Commissione europea ha accettato a malincuore un piano di compromesso.

L’Italia si è impegnata a ridurre il suo deficit di bilancio nominale dal 2,4% del Pil al 2%. La Commissione ha accettato con riluttanza che il disavanzo strutturale, che lascia fuori le misure una tantum e gli effetti ciclici, debba rimanere invariato l’anno prossimo. “La soluzione sul tavolo non è l’ideale”, ha brontolato il vicepresidente della Commissione europea Valdis Dombrovskis. Quello era un geniale eufemismo.

L’accordo consente alla Commissione di evitare azioni legali contro l’Italia – “a condizione che le misure siano attuate pienamente“. Questa clausola subordinata indica che lo scontro con l’Italia non è stato risolto, ma solo ritardato. La legge di bilancio del prossimo anno non offre soluzioni per i problemi a lungo termine del paese.

Perché la Commissione europea ha accettato un accordo insoddisfacente? La risposta deve essere trovata, non nell’economia, ma nella politica. Avevano appena permesso al presidente della Francia di farla franca, dopo che aveva messo a disposizione fino a 10 miliardi di euro di spese extra per sedare la ribellione dei gilet gialli. Questo minacciava di spingere il deficit di bilancio francese per il prossimo anno oltre il limite del 3% del Pil imposto dall’eurozona. Non erano quindi in grado di esercitare pressioni sugli italiani, il cui deficit previsto era effettivamente inferiore al 3% del Pil.

Ma c’erano chiaramente altre considerazioni più serie. In un’intervista al Corriere della Sera, il Primo ministro italiano, Giuseppe Conte, ha dichiarato di aver ricordato alla commissione che il suo governo “ha affrontato il dovere di mantenere la stabilità sociale in Italia“. Quella era una minaccia appena velata: o si smette di fare pressione su di noi, o l’Italia dovrà affrontare un’esplosione sociale che avrà ripercussioni oltre i nostri confini. L’avvertimento non è andato inosservato dagli uomini a Bruxelles.

Si può dire che l’Italia è troppo grande per fallire. Ma bisogna aggiungere che è anche troppo grande per essere salvata. Non c’è abbastanza denaro nella Bundesbank per salvare il capitalismo italiano malato. Questo dramma non è ancora arrivato alla sua conclusione.

Una crisi mondiale

Negli anni ’20, Trotskij predisse che il centro della storia mondiale, che era già passato dal Mediterraneo all’Atlantico, in futuro sarebbe passato dall’Atlantico al Pacifico. Quella previsione straordinaria è ora un dato di fatto. L’Europa sta precipitando dietro l’America e alla Cina nella corsa alle nuove tecnologie di intelligenza artificiale. Nel 2019, probabilmente l’India supererà sia la Gran Bretagna che la Francia (almeno in termini assoluti) per diventare la quinta economia mondiale. Il futuro della storia del mondo sarà finalmente deciso, non dall’Europa, ma dal Pacifico.

Ma questo stesso processo è pieno di contraddizioni. Il destino dell’economia mondiale dipende in larga misura dalla Cina, che fino a poco tempo fa era una delle sue principali forze motrici. Ma la Cina dipende in larga misura dalle esportazioni. La domanda in calo in Europa e negli Stati Uniti ha creato una crisi di sovrapproduzione nell’acciaio e in altri settori chiave dell’economia cinese. Il tasso di crescita della Cina è rallentato a circa il 6,5%.

Sebbene possa sembrare una cifra elevata rispetto ai miseri tassi di crescita di Europa e Stati Uniti, è allarmante rispetto al passato. È stato generalmente accettato che qualsiasi cifra inferiore all’8% di crescita per la Cina sia pericolosamente bassa, poiché questo è il tasso richiesto per tenere il passo con la crescita della popolazione.

Per stimolare le esportazioni, sul mercato mondiale la Cina ha fatto ricorso al dumping di grandi quantità di acciaio a basso costo. Ciò ha provocato una grave crisi dell’acciaio in Europa e grida di protesta in particolare dagli americani. È uno dei principali fattori che hanno portato all’attuale guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina.

Ora la Cina è emersa come una potenza mondiale che sta entrando sempre più in conflitto con gli Stati Uniti. La guerra commerciale tra questi due paesi è una chiara manifestazione di questo fatto.

Tuttavia, gli Stati Uniti mantengono ancora la loro posizione dominante nell’economia e nella politica mondiale. La combinazione di tassi di interesse in aumento e di un dollaro in crescita è servita ad attirare grandi quantità di capitali speculativi negli Stati Uniti, con effetti disastrosi per i cosiddetti mercati emergenti in America Latina, Asia e Medio Oriente. Le loro fragili economie si trovano in balia dell’onnipotente dollaro, che le sta comprimendo, aggravando l’indebitamento e strappando preziosi investimenti.

Nell’ultimo periodo, le cosiddette economie emergenti hanno agito come stimolo per la crescita economica mondiale. Ora dopo vari sussulti si sono fermate. La Turchia, l’Argentina, il Brasile e altre economie precedentemente forti sono precipitate in recessione, o nel migliore dei casi, nella stagnazione.

La vera faccia dell’imperialismo USA

Lo slogan di Donald Trump “Facciamo di nuovo grande l’America” è una sorta di manifesto imperialista, il cui significato sottinteso recita quanto segue: “renderemo l’America di nuovo grande a spese del resto del mondo”. Dietro la retorica spavalda si nasconde una chiara minaccia per il resto del mondo: fate come diciamo, o ne affronterete le conseguenze.

Il presidente Trump ha pochissimo tempo per gli alleati europei dell’America, che considera giustamente come dei nanerottoli rispetto alla gigantesca potenza degli Stati Uniti. È irritato dalle pretese degli europei, dalla loro futile preoccupazione per lo scenario mondiale e dai loro ridicoli tentativi di influenzare la politica estera statunitense. Gli ronzano intorno alla testa come tante mosche fastidiose. E mentre i precedenti presidenti americani si accontentavano di fingere di prestare loro una certa attenzione, il suo istinto è quello di schiacciarli con forza in modo che cessino di disturbarlo.

La politica di Trump, in sostanza, non è molto diversa da quella dei suoi predecessori. Anche loro non hanno esitato ad usare la forza economica e militare americana per imporre la propria volontà al resto del mondo. Ma lo hanno fatto in un modo diverso: qualcuno potrebbe dire con più finezza, altri direbbero, piuttosto più sinceramente, con estrema ipocrisia.

Mentre proclamavano le virtù della democrazia, della giustizia, della pace e dell’umanitarismo, non hanno esitato a calpestare ogni istanza che contraddiceva gli interessi reali o percepiti dell’America. Donald Trump fa esattamente lo stesso, ma non si preoccupa di proclamare valori in cui non ha assolutamente alcun interesse e che comunque non giocano assolutamente alcun ruolo nella politica estera dell’imperialismo americano, o di qualsiasi altro imperialismo.

Trump ha messo da parte la maschera ipocrita della decenza per rivelare il brutto ma reale volto dell’imperialismo americano per educare il mondo intero. In tal senso, si potrebbe dire che è di un’onestà quasi piacevole.

L’America rimane ancora un colosso su scala mondiale. Il suo potere economico e militare è veramente grande. Ma la potenza statunitense non è illimitata. I suoi limiti sono stati dimostrati con brutale chiarezza in Iraq, Siria e Afghanistan. Trump ne ha tratto velocemente le conclusioni.

L’intero istinto di Trump è incline all’isolazionismo, una tradizione molto antica e rispettata da un certo settore della classe dirigente americana. Come abbiamo osservato, Trump è completamente disinteressato agli affari dei suoi “alleati” europei (in un momento di inconsueta sincerità, li ha descritti come “nemici”, in contrasto con i russi, che erano semplici “rivali”).

In effetti, non ha nemmeno molto tempo per la NATO, e preferirebbe vederla sciolta, insieme alle Nazioni Unite, al NAFTA, all’Organizzazione mondiale del commercio e a tutte le altre espressioni malsane di organizzazioni transnazionali.

Ma dal momento che, purtroppo, deve ascoltare le opinioni dei suoi numerosi noiosi consiglieri, è stato costretto a malincuore ad accettare l’esistenza di questa scomoda alleanza militare, mentre chiedeva a gran voce che i suoi “alleati” europei si mettessero le mani in tasca per finanziarla alleggerendo così il peso dei contribuenti americani i cui voti sono per lui più importanti delle opinione pubblica a Parigi, Berlino e Londra.

Tuttavia, ha deciso unilateralmente di ritirare le truppe americane dal Medio Oriente. Questo mostrerà agli europei che parla sul serio e forse, alla fine li costringerà a passare dalle parole ai fatti. Una simile motivazione è dietro al suo atteggiamento apparentemente paradossale nei confronti di Vladimir Putin. Durante la sua campagna presidenziale, non ha perso l’occasione di lodare l’uomo del Cremlino, definendolo un “tipo veramente intelligente” e un uomo con cui si poteva fare affari.

Queste osservazioni non sono state apprezzate dall’establishment militare statunitense, né dai falchi del Partito Repubblicano. Hanno fornito ai suoi nemici politici un’occasione d’oro per attaccarlo, puntando il dito su una complicità russa nella sua campagna presidenziale. Da allora, la campagna sulle cosiddette interferenze russe alle elezioni è continuata inesorabilmente, sebbene abbia generato più fumo che arrosto.

All’idea che la vittoria di Trump sia stata causata dall’ingerenza russa non crederebbe nemmeno un bambino di sei anni di intelligenza media. È solo un riflesso dell’incapacità dei Democratici di accettare che la popolazione americana sia completamente schifata dall’establishment politico esistente e spinto da un profondo desiderio di cambiamento.

Sotto la pressione dei suoi avversari, Trump è stato costretto a cambiare più volte posizione sulla Russia. Ma la sua decisione di ritirarsi dalla Siria indica che non ha cambiato la sua posizione dopo le elezioni. Ancora una volta, l’istinto isolazionista di Trump ha prevalso. John Kelly, Capo di stato maggiore della Casa Bianca, e Jim Mattis, segretario alla Difesa, si sono dimessi in segno di protesta. Ma le proteste e le dimissioni non hanno avuto alcun effetto su Trump in passato, e non c’è ragione di credere che questa volta sarà diverso.

Ma isolazionismo non significa in alcun modo rinuncia. Questo è reso impossibile dalla tendenza inarrestabile all’unificazione di tutte le economie eterogenee del mondo in un unico mercato mondiale. La globalizzazione è solo un’espressione di un fenomeno che era già stato predetto da Marx ed Engels nel Manifesto del Partito Comunista 150 anni fa.

Questa previsione è stata brillantemente confermata dalla storia del mondo, in particolare negli ultimi 50 anni. Nessun paese, non importa quanto grande e potente, può sfuggire all’irresistibile attrazione del mercato mondiale. Tutti i discorsi sulla sovranità nazionale, il controllo delle nostre frontiere e così via, sono solo aria fritta.

Nubi minacciose si stanno accumulando

Aleggiando l’intera equazione instabile come una nube temporalesca, è imminente la minaccia di una nuova recessione mondiale. Ora questo è accettato da tutti gli economisti seri. La domanda non è se accadrà, ma quando.

L’instabilità economica globale si riflette nelle continue giravolte dei mercati azionari. Dopo le cadute di ottobre e la stagnazione a novembre, l’indice S&P 500 è crollato del 15% tra il 30 novembre e il 24 dicembre. Nonostante una breve ripresa del 5% a Santo Stefano, l’indice ha chiuso con il 6% in meno rispetto al valore iniziale. Il primo giorno di contrattazioni del 2019 ha mostrato un’ulteriore instabilità, con la caduta delle azioni in Asia e le turbolenze in Europa.

La notizia inaspettata di un crollo delle vendite della Apple ha causato un’ondata di allarme. La società ha lanciato l’avvertimento di un forte rallentamento dell’economia cinese e di vendite deboli in altri mercati emergenti. Ciò indicava che i ricavi del quarto trimestre sarebbero state inferiori alle aspettative fino al 10%. Subito dopo è arrivata la notizia che il settore manifatturiero cinese si è contratto a dicembre, il che ha innervosito gli investitori a livello globale. I futures S&P 500 sono calati prima che Wall Street riaprisse il 3 gennaio.

Queste oscillazioni febbrili delle borse mondiali sono un’indicazione di estremo nervosismo e crescente preoccupazione per le prospettive future dell’economia mondiale. Se è vero che i movimenti dei mercati azionari non rispecchiano esattamente lo stato dell’economia reale, essi servono comunque come un utile barometro per misurare lo stato mentale degli investitori.

Un recente articolo dell’Economist ha espresso la sua preoccupazione:

“Ma l’andamento negativo dei mercati azionari lo scorso anno, che si è mantenuto all’inizio di quest’anno, può essere ricondotto in parte alla crescente preoccupazione per lo stato dell’economia mondiale e in particolare delle sue due maggiori economie”.

L’articolo continua:

“Secondo la nostra consociata Economist Intelligence Unit (EIU), l’America crescerà del 2,3% quest’anno. È un tasso di crescita notevolmente inferiore rispetto a quello dello scorso anno, stimato al 2,9%, in quanto la Federal Reserve ha adottato una politica monetaria restrittiva e gli effetti delle riduzioni fiscali dello scorso anno sono in calo. Il tasso di crescita previsto della Cina è molto più alto, 6,3%, ma è ancora in calo rispetto alla sua performance stimata del 2018 e molti temono un peggioramento a causa della guerra commerciale con l’America e della campagna cinese per frenare il debito.

“L’Europa presenta un’immagine ancora più cupa. La Gran Bretagna, che dovrebbe lasciare l’Unione Europea a marzo, si prevede che cresca di un tiepido 1,5%; La Francia affronta meno incertezza ma non va meglio. L’Italia, perenne delusione economica, è destinata a segnare una crescita di appena lo 0,4%. Ciò la colloca come il settimo peggior risultato nella classifica delle previsioni dell’EIU. Di quelli che seguono nelle previsioni per il 2019, nessuno precipita più del Venezuela, che è in caduta libera da anni”.

Come ci si potrebbe aspettare, l’Economist cerca necessariamente di trovare alcune cifre secondarie che siano di conforto, sottolineando che l’India avrebbe dovuto crescere allo stesso ritmo dell’anno scorso (7,4 per cento). Ma come sappiamo, c’è anche il rovescio della medaglia e non per niente l’economia non è conosciuta come una scienza esatta. Con un ironico senso dell’umorismo, l’autore conclude:

“Ma l’economia che dovrebbe raggiungere il miglior risultato nel 2019 – la Siria, con una crescita prevista del 9,9% – è un promemoria per ricordarci che un numero elevato può riflettere il peggiore punto di partenza”.

Vi è un crescente allarme tra le fila degli economisti borghesi più seri. Questo allarme è ben fondato. Il rendimento totale (plusvalenze o minusvalenze più dividendi) dell’indice S&P 500 delle principali azioni americane è stato negativo per la prima volta da un decennio. Le cose sono andate anche peggio negli altri mercati. L’indice di Shanghai è diminuito di un quarto. C’è una fuga precipitosa degli investitori da attività rischiose (compresi i cosiddetti mercati emergenti) verso paradisi più sicuri. La crescita delle scorte di obbligazioni del Tesoro e oro. Anticipando i tempi difficili, i capitalisti accumulano denaro contante invece di investire nella produzione.

Tutto suggerisce che, quando arriverà, la prossima recessione sarà molto peggiore della crisi del 2008. La ragione principale è che, nell’ultimo decennio, la borghesia ha esaurito tutti gli strumenti che sono stati tradizionalmente utilizzati per prevenire le recessioni, o per limitare la loro durata e profondità.

I capitalisti hanno fondamentalmente due armi a disposizione per affrontare la recessione. La prima è l’abbassamento dei tassi di interesse. Ma nei loro tentativi disperati di uscire dall’ultima recessione, hanno ridotto i tassi di interesse a livelli storicamente senza precedenti, in genere verso lo zero. La possibilità di ulteriori riduzioni delle aliquote è quindi trascurabile. Anche negli Stati Uniti, dove la Federal Reserve ha aumentato i tassi più volte nell’ultimo anno, il margine di manovra è ancora molto limitato.

La seconda arma è aumentare la quantità di denaro in circolazione attraverso l’intervento dello stato e delle Banche centrali. Ma qui c’è un problema. Nel corso dell’ultimo decennio, enormi quantità di denaro sono state immesse nell’economia per salvare le banche private. Tutto ciò che si è ottenuto è stato di trasformare quello che originariamente era un gigantesco buco nero nei libri contabili delle banche in un gigantesco buco nero delle finanze pubbliche.

Ovunque si sono accumulati enormi deficit, che agiscono come giganteschi freni sull’economia. La borghesia sta lottando per ridurre i debiti, non per aumentarli ulteriormente. Da questo fatto, non c’è modo che la borghesia possa ancora saccheggiare lo stato per trascinarsi fuori dal buco.

Il dilemma della borghesia è illustrato dal fatto che la Banca centrale europea ha annunciato la fine dello stimolo monetario (il “quantitative easing”), proprio nel momento in cui vi sono segnali che l’economia europea stia rallentando. Ma la borghesia europea, ossessionata dal problema della Brexit e dell’immigrazione, sembra ignara dei pericoli. La BCE sta facendo esattamente l’opposto di ciò che è necessario da un punto di vista capitalista. Tutto ciò solleva serie domande sul futuro dell’euro e, in ultima analisi, sulla stessa UE.

La situazione dall’altra parte dell’Atlantico non è migliore. L’anno 2019 è stato celebrato dai governanti politici statunitensi con una brutta rissa che ha portato il 22 dicembre al parziale shutdown delle attività governative. Durante un incontro televisivo a dicembre con Nancy Pelosi e Chuck Schumer, i due leader democratici alla Camera e al Senato, si è sentito Trump dire: “Bloccherò le attività amministrative se non avrò il mio muro” e lui mantiene le promesse.

È vero che degli shutdown si erano già verificati in precedenza. Ma non erano mai durati quanto questo. Ciò riflette una profonda crisi dell’intero sistema politico, con un Congresso controllato dai Democratici, aspramente ostile al Presidente. Com’era prevedibile, un accordo è stato ricucito all’ultimo minuto. Ma Trump sta minacciando di porre il veto all’accordo e nessuna delle contraddizioni di fondo è stata risolta.

In aggiunta al caos generale, c’è una disputa continua e dura tra il Presidente e la Federal Reserve statunitense come conseguenza dell’insistenza di quest’ultimo a voler alzare i tassi di interesse. Ma mentre i politici litigano sulla politica economica, i mercati sono pronti a rilasciare il loro verdetto senza consultare chi sta a Washington.

Donald Trump è un uomo che sembra essere stato fortunato per la maggior parte della sua vita. Un uomo fortunato tende ad essere un giocatore d’azzardo. Visto che le scommesse passate hanno avuto successo, perché non continuare l’azzardo? Ma la storia dimostra che, per ogni giocatore d’azzardo, deve venire il giorno in cui la sua striscia fortunata si esaurisce. Trump ha avuto la fortuna di entrare alla Casa Bianca nel momento in cui l’economia americana stava andando piuttosto bene. Poteva rivendicare il merito per cose che in realtà non erano sue. Ma i suoi sostenitori non potevano vedere la differenza. La sua fortuna continuava.

Poteva argomentare, con un certo grado di ragione, che le sue misure di riduzione delle tasse hanno contribuito a risollevare l’economia per un certo periodo. Ma in economia, come in natura, prima o poi tutto si trasforma nel suo opposto. Gli effetti a breve termine del pacchetto di stimoli di Trump, entrato in vigore un anno fa, stanno svanendo in un momento in cui vi sono chiari segni di rallentamento economico in Cina e in Europa. L’imposizione di dazi da parte di Trump e la minaccia di ulteriori controversie commerciali fungono da ulteriore deterrente per gli investimenti. Le previsioni di profitto sono state ridimensionate.

Il nervosismo dei mercati azionari riflette le preoccupazioni sull’economia reale. Gli Stati Uniti stanno per entrare nel periodo più turbolento di tutta la loro storia e il momento fortunato di Donald sta per arrivare ad un finale burrascoso.

Una crisi di direzione

La società è sempre più divisa tra un piccolo gruppo di persone che controllano il sistema e la stragrande maggioranza che sta diventando sempre più povera ed è in aperta ribellione contro di esso. Ovunque guardiamo, possiamo vedere malcontento, rabbia, odio e collera crescenti verso l’ordine esistente. Questo si esprime in modi diversi nei diversi paesi. Ma ovunque vediamo che le masse, i lavoratori e i giovani stanno cominciando a mobilitarsi, a sfidare il vecchio ordine e a combatterlo.

Il 2018 ha visto un’impennata nel movimento di massa in molti diversi paesi: Iran, Iraq, Tunisia, Spagna, Catalogna, Pakistan, Russia, Togo, Ungheria e, naturalmente, Francia. I recenti eventi in Francia forniscono una risposta schiacciante a tutti i cinici e gli scettici che dubitano della capacità della classe operaia di cambiare la società. Come un fulmine a cielo sereno, i lavoratori e i giovani sono scesi in strada e in un paio di settimane hanno messo in ginocchio il governo. Se quel movimento fosse stato dotato di una direzione seria, avrebbe potuto abbattere il governo e preparare la strada per una trasformazione radicale della società francese.

In assenza di una leadership e di un chiaro programma, è possibile che il movimento rifluisca per un po’ di tempo. Ma le contraddizioni di fondo rimangono. Il governo di Macron è come una nave con un buco nella chiglia. Può continuare a galleggiare per un po’, ma i suoi giorni sono contati. I lavoratori e i giovani ora comprendono la forza dell’azione collettiva di classe. Non verranno comprati da concessioni parziali e temporanee. Prima o poi, torneranno in azione, questa volta con una visione più chiara di ciò che è necessario: un programma combattivo per cacciare un presidente odiato e lottare per un governo che agirà nell’interesse della classe operaia.

Questo movimento spontaneo delle masse è la condizione preliminare per la rivoluzione socialista. Ma di per sé, non è sufficiente per garantire il successo. Nel 1938, Trotskij scrisse che si poteva ridurre la crisi dell’umanità alla crisi della direzione del proletariato. Questa affermazione è ancora più vera oggi di quando è stata scritta. La storia della guerra ci dà molti esempi in cui un grande esercito di coraggiosi soldati è stato sconfitto da una forza molto più piccola di truppe disciplinate guidate da ufficiali esperti. La guerra tra le classi ha molti punti di somiglianza con la guerra tra nazioni.

I sotterfugi vigliacchi e le mezze misure dei riformisti, lungi dal risolvere la crisi, si limiteranno a conferirle un carattere ancora più convulso, doloroso e distruttivo. È compito dei rivoluzionari assicurare che questa lunga e dolorosa agonia mortale del capitalismo venga interrotta il prima possibile e con la minima sofferenza possibile per la classe operaia. Perché ciò accada, è necessaria un’azione decisiva. Solo i marxisti sono in grado di fornire la direzione che garantirà un risultato così pacifico e indolore a partire dalla crisi attuale.

È vero che le forze del marxismo su scala mondiale sono state ricacciate indietro periodo da fattori oggettivi. I tradimenti del riformismo e dello stalinismo hanno permesso al capitalismo di sopravvivere, ma le loro azioni sono state rese possibili dalla capacità del capitalismo di raggiungere una relativa stabilità e di fare certe concessioni alla classe operaia.

Ma questo periodo è ora alla fine. Per decenni abbiamo nuotato controcorrente. In quel periodo è stata un’impresa considerevole anche solo mantenere intatte le nostre forze. Ma ora la marea della storia ha cominciato a cambiare. Invece di nuotare contro corrente, stiamo iniziando a nuotare a favore.

Tutte le vecchie certezze stanno svanendo. Le vecchie illusioni stanno gradualmente scomparendo dalla coscienza della classe operaia. Le masse sono finalmente costrette ad affrontare la realtà. Stanno lentamente iniziando a trarre conclusioni. Questa è la nostra grande forza e la grande debolezza del capitalismo e del riformismo.

La nostra Internazionale manca delle enormi risorse finanziarie dei partiti riformisti. Ma sul terreno più importante, siamo incommensurabilmente più forti di qualsiasi altra tendenza nel mondo: abbiamo le idee del marxismo. Ed è il potere delle idee che può cambiare il mondo. Dobbiamo avere completa fiducia nelle nostre idee, programmi e prospettive e fiducia nella classe lavoratrice, l’unica classe che può cambiare la società. Soprattutto, dobbiamo avere fiducia in noi stessi, perché se non portiamo avanti noi questo compito, nessun altro lo farà per noi.

4 gennaio 2019

Condividi sui social