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Viadana: la lotta dei facchini del gruppo Saviola

Il 17 maggio ha avuto inizio una lotta del tutto inedita e importante per Viadana, una piccola cittadina nella provincia mantovana: i facchini impiegati alla Composad sono scesi in sciopero con presidio permanente davanti ai cancelli, la rivendicazione è il mantenimento delle loro condizioni di lavoro.

La Composad produce mobili in kit ed è parte del Gruppo Mauro Saviola, uno dei più importanti in Italia nel campo della lavorazione del legno: sul sito si legge “Il fatturato consolidato del Gruppo lo pone da anni fra le prime 300 realtà industriali italiane per importanza e fra le prime al mondo nei settori di riferimento.

Quello che sul sito non compare è il ricorso a cooperative della logistica per avere addetti meno tutelati e maggiormente ricattabili, impiegati ormai da anni presso l’azienda.

Quando l’anno scorso i facchini si mobilitarono riuscirono a strappare un accordo in cui Legacoop, cooperativa e proprietà aziendale si impegnavano a mantenere stabile, per due anni, forza lavoro e condizioni retributive.

Quell’accordo, sottoscritto anche da prefetto e provincia oltre che dalle organizzazioni sindacali CGIL, CISL e ADL COBAS ora è diventato carta straccia.

Il 13 maggio difatti, i 271 facchini che lavorano in Composad sotto la coop Viadana Facchini vengono lasciati a casa per permettere ad un’altra cooperativa, la C.L.O., di fornire i servizi legati alla logistica dell’azienda a costi inferiori.

In quale modo? Ri-assumendo solo una parte dei 271 addetti, a condizioni peggiori rispetto alle precedenti. Quei facchini (ri)assunti inoltre, risultando “nuovi associati” della cooperativa C.L.O., sono obbligati a versare a questa la quota di associazione: 1000 euro.

L’attacco alle maestranze messo in campo da Composad, Legacoop e cooperative ricalca situazioni già viste in molte altre realtà lavorative: tagliare sul personale della logistica di un’azienda tramite cambio d’appalto.

La dinamica che le accomuna è quasi sempre la stessa: i lavoratori vengono licenziati, una parte di loro può ritornar ad avere lo stesso impiego nella stessa azienda in cui già lavorava da anni solo accettando condizioni peggiori e “associandosi” alla cooperativa che sostituisce la precedente.

Di fronte a questo, del tutto naturale è il presidio davanti ai cancelli, ma dopo due settimane di mobilitazione è la dirigenza CGIL a rompere la compattezza dei lavoratori in lotta: il 31 maggio, senza nessun tipo di confronto preliminare con i facchini in mobilitazione, firma un accordo con Legacoop e C.L.O. che prevede la (ri)assunzione, sotto questa cooperativa e dietro versamento della quota associativa di 1000 euro, di 200 addetti: 150 a tempo indeterminato e 50 con contratto a termine, tutti quanti al 5° livello.

Le altre due organizzazioni sindacali, CISL e ADL COBAS, quest’ultima maggioritaria in termini di iscritti, rifiutano di sottoscrivere l’accordo, sanno bene che i facchini non stanno lottando per lasciare a casa 70 di loro e in effetti il referendum, nei giorni successivi, vede una sonora bocciatura dell’accordo con 172 voti contrari e molti astenuti. La percezione è che i dirigenti della CGIL siano giunti ad un accordo separato ignorando (consapevolmente) le rivendicazioni dei protagonisti di quella lotta e con l’intento di porre termine al più presto alla mobilitazione in corso sacrificando quelle rivendicazioni.

Nonostante ciò, la piena solidarietà di alcuni attivisti di sinistra non viene a mancare. Il sostegno “più partecipato” viene dall’insegnante di italiano della scuola CIPA di Viadana (istruzione per adulti): diversi facchini e le loro mogli sono studenti della scuola e, per chi conosce da anni quella comunità, nessun dubbio può sorgere su quanto sia necessario quel lavoro per le famiglie coinvolte.

L’insegnante, per dar voce alla mobilitazione, decide di iniziare lo sciopero della fame cogliendo ogni occasione, compreso l’incontro provinciale sui voucher organizzato dalla CGIL, per ribadire l’importanza di dar sostegno alla lotta

Ma la principale preoccupazione della dirigenza CGIL di Mantova sembra essere quella di dar seguito all’intesa separata e bocciata. Nei giorni seguenti a quell’accordo inizia ad esercitare pressioni su un settore di facchini, invitandoli a sottoscrivere velocemente il nuovo contratto di assunzione alle condizioni previste dall’intesa. Alcuni di loro accettano ma la maggior parte prosegue con determinazione la lotta confermando il rigetto dell’accordo capestro.

Quella stessa CGIL che nell’ultimo anno ha promosso un referendum per aumentare le tutele di tutti quei lavoratori coinvolti nella giungla degli appalti, arrivando a raccogliere in tutta Italia milioni di firme, nella provincia mantovana giunge ad un accordo separato che lascia a casa 70 lavoratori di un appalto e non garantisce ai facchini che continueranno ad essere impiegati in quell’azienda i diritti maturati.

Nei giorni successivi la determinazione dei facchini non si piega, il presidio davanti all’azienda continua anche con la presenza delle loro famiglie: i camion vengono invitati a non entrare e il blocco inizia a dare risultati, la proprietà lamenta ingenti perdite a causa della mobilitazione in corso. La tensione aumenta e viene messa in campo una brutale azione repressiva contro il presidio: l’intervento delle forze dell’ordine con manganelli per sgomberare i facchini e le loro famiglie -bambini compresi- mette in luce in quale modo il Gruppo Saviola “ha a cuore i propri dipendenti, rispetta il loro lavoro, la loro sicurezza e la loro salute”, come riportato sul sito del gruppo.

Negli ultimi giorni, tra comunicati e appelli di padroni e istituzioni accomunati dal mettere tra le righe in contrapposizione facchini e lavoratori diretti, Legacoop e C.L.O. giungono ad una seconda intesa che viene sottoscritta da tutte le organizzazioni sindacali. Sia i confederali che ADL COBAS (seppur firmando con riserva condizionata al referendum) firmano questo nuovo accordo in cui vengono ripreso quanto presente nell’intesa separata con aggiunte che prevedono la ri-assunzione (a tempo determinato) di ulteriori 22 addetti, criteri obiettivi per riassumere i lavoratori licenziati e un riconoscimento economico per quei lavoratori che non verranno riassunti. L’accordo viene approvato dai facchini.

La realtà è che di fronte ai profitti che dirigenti di cooperative e padroni come la famiglia Saviola tentano di fare sulla pelle della forza lavoro, la risposta da mettere in campo non può che mostrarsi determinata. Chi si rende protagonista delle mobilitazioni deve creare le condizioni perché si uniscano le rivendicazioni dei lavoratori diretti e indiretti.

Alimentare una contrapposizione tra le diverse maestranze affermando che il blocco dei facchini mette in difficoltà lavoratori diretti e indotto è utile solo a fare il gioco di quei dirigenti d’azienda o di cooperative che puntano ad una forza lavoro a basso costo, in perenne competizione, con meno diritti possibili. Quando si tratta di togliere tutele e spremere maggiormente i lavoratori, i padroni non guardano in faccia a nessuno: diretti o indiretti, italiani e stranieri. La disdetta del contratto integrativo del 25 novembre del 2016, per citare uno degli ultimi attacchi ai lavoratori diretti Composad, ne è la conferma.

L’indebitamento del Gruppo Saviola è la foglia di fico che non può nascondere gli ingenti guadagni della proprietà. Il 2015 è stato chiuso con un fatturato di oltre mezzo miliardo di euro (solo la Composad 92 milioni) e un utile netto che sfiora gli 8 milioni di euro (vedi Gazzetta di Mantova del 20 luglio 2016). Di fronte all’arroganza di chi macina guadagni togliendo tutele o lasciando a casa parte della forza lavoro è sempre necessario rispondere con l’unità: la contrapposizione tra lavoratori è una perenne minaccia anche a quelli più tutelati che da un momento all’altro potrebbero vedersi togliere diritti dietro il ricatto generato dal fatto che c’è chi è meno garantito di loro.

Anche a vertenza chiusa è necessario ripartire da un dialogo tra facchini e diretti Composad che approfondisca tutto quanto è legato alle rispettive condizioni di lavoro presso l’azienda. Bisogna puntare a costruire assemblee in cui possano partecipare gli uni e gli altri, in cui siano i lavoratori a parlare e a confrontarsi, in cui si possa lavorare a piattaforme rivendicative condivise che tutelino diretti e indiretti: il mantenimento o miglioramento delle proprie condizioni lavorative passa dall’unità di quella forza lavoro che da anni si ritrova accomunata nel subire attacchi e soprusi da parti di padroni e dirigenti di cooperative.

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