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Il risultato del referendum costituzionale è stato talmente netto da non lasciare spazio per le interpretazioni. È stato un voto di classe, dei giovani, di tutti coloro che in questi anni sono stati attaccati e irrisi dal governo Renzi (e dai suoi predecessori). Non è stato un fulmine a ciel sereno, ma l’espressione politica, nelle condizioni date, del processo di radicalizzazione di massa che attraversa il nostro paese come conseguenza della crisi. Non è un nuovo inizio da zero, bensì un poderoso salto di qualità nel processo di risveglio dei lavoratori e degli sfruttati in genere. Quando parliamo di condizioni date ci riferiamo innanzitutto all’enorme ostacolo posto dalle organizzazioni di massa e della sinistra che hanno impedito che l’opposizione al governo Renzi, già forte nel movimento del 2014-2015 contro il Jobs act e contro la Buona scuola, si sviluppasse in tutto il suo potenziale.

Siamo quindi entrati in una nuova fase che sarà caratterizzata da un maggiore protagonismo delle masse, da un ritmo più serrato degli avvenimenti e da una maggiore diffusione dei processi di politicizzazione.

Il governo Gentiloni è stato insediato in fretta e furia per evitare pericolosi “vuoti” e un’ondata di panico simile a quella seguita al voto sulla Brexit. L’operazione è temporaneamente riuscita, dando vita a un governo fotocopia nel quale Renzi mantiene i suoi terminali diretti (Boschi, Lotti).

Per puntellare l’operazione è stata chiamata in soccorso la Cgil che non ha fatto mancare il suo sostegno dichiarando disponibilità a un “confronto costruttivo” col nuovo governo e inviando l’ex segretaria dei tessili Fedeli a occupare il posto di Ministro della pubblica istruzione, ossia a presidiare uno dei fronti più scoperti del governo Renzi. Analogamente Sinistra italiana appena Gentiloni ha ricevuto l’incarico, ha chiesto un “segnale di apertura”.

Così la sinistra riformista ci ha messo poche ore per fare il primo e grottesco errore della nuova fase: lasciare in mano alla destra e ai grillini la elementare rivendicazione democratica di nuove elezioni in tempi brevi.

Non dobbiamo sottovalutare il sentimento democratico che esiste fra milioni di persone che si sentono giustamente defraudate dal diritto di decidere, sentimento che non farà che rafforzarsi dopo la valanga di No nel referendum. Rispondere a questo ambiente facendo lezioni di diritto costituzionale sul fatto che l’Italia è una repubblica parlamentare in cui il primo ministro non è eletto dal popolo, oppure con “profonde” osservazioni tattiche sul fatto che la sinistra non è “ancora pronta” per il voto, o con le prediche sul rischio del populismo, tutto questo è il marchio di una sinistra fallimentare che neppure in mezzo a un terremoto politico riesce a cogliere l’umore delle masse e a connettersi ad esse.

La borghesia pretende l’impossibile, ossia che questo governo Renzi senza Renzi riesca a fare quanto non è riuscito a fare il suo predecessore: continuare le “riforme”, risolvere la crisi bancaria senza danneggiare i “mercati”, ridurre il debito pubblico, ecc. Se il governo Gentiloni si mettesse su questa strada si troverebbe immediatamente di fronte a una opposizione di massa che con ogni probabilità non solo lo paralizzerebbe, ma potrebbe anche rovesciarlo. In realtà il governo è stato insediato con scopi molto ben delimitati:

– Dare il tempo a Renzi di fare un congresso lampo nel Pd, schiacciare la minoranza e assicurarsi così un ferreo controllo delle candidature alle prossime elezioni.

– Cambiare (con il probabile aiuto della Consulta) la legge elettorale abolendo il ballottaggio e avvicinandola al proporzionale.

A questo si aggiunge la questione di evitare il voto sui referendum proposti dalla Cgil contro il Jobs Act (art. 18 e vouchers). Questi referendum, nati come manovra della burocrazia sindacale per seppellire il movimento del 2014 contro il Jobs act, nel clima odierno generano il timor panico di un nuovo plebiscito contro il governo. Ci sono due modi per evitarli, oltre a una dichiarazione di inammissibilità dei quesiti da parte della Consulta. Il primo è andare a elezioni, rimandandoli così al 2018. Il secondo è modificare il Jobs Act in modo da farli decadere. Le manovre in proposito sono già iniziate, in particolare da parte di Cesare Damiano, che da tempo si propone come interlocutore della Cgil nel Pd, che ha depositato una proposta di modifica del sistema dei vouchers. Molto più difficile invece sarebbe ritornare sull’art. 18. Tuttavia queste manovre verranno usate per tenere impegnata la Cgil in un “dialogo costruttivo” almeno fintanto che non si siano chiariti gli sbocchi del conflitto interno al Pd.

I referendum in questione continuano quindi ad essere soprattutto un arma utile alla burocrazia più che ai lavoratori; tuttavia in un quadro destabilizzato come quello che si è aperto anch’essi sono diventati un fattore di ulteriore complicazione.

Con un governo privo di qualsiasi autorità, un parlamento screditato e il fermento che cresce nel paese, la questione di un movimento di massa contro il governo torna in campo. Questo riguarda sia il terreno elettorale che quello della mobilitazione diretta.

Nonostante la nostra organizzazione sia troppo piccola per potersi rivolgere direttamente alla massa, dobbiamo elaborare la nostra posizione su questo terreno se non vogliamo porci nella condizione di commentatori passivi proprio mentre la situazione comincia a sbloccarsi.

Le nostre parole d’ordine centrali nella prossima fase debbono essere quindi le seguenti.

1) Facciamo appello a tutte le organizzazioni che hanno fatto campagna per il NO a mettere in campo una mobilitazione di piazza (assemblee, manifestazioni, manifestazioni nazionali, scioperi) contro questo governo e per elezioni immediate. La destra sta già tentando di occupare demagogicamente questo terreno. Ad oggi la destra non ha la forza per egemonizzare un movimento di massa dei lavoratori e dei giovani, tuttavia la passività criminale della sinistra e della Cgil lascia aperto uno spazio del tutto immeritato per Salvini e compagnia.

Più importante è la questione dei Cinque stelle, che non a caso stanno ancora discutendo se e come convocare delle mobilitazioni di piazza. Esitano perché sanno che un appello chiaro oggi potrebbe avere una risposta travolgente che replicherebbe su scala decuplicata le manifestazioni del 2013, quando decine di migliaia di persone tentarono di condizionare con una pressione di piazza la scelta del presidente della repubblica. Al momento, non a caso, i capi dei 5 stelle camminano sulle uova e propongono qualche pagliacciata innocua come i flash mob o altre iniziative utili solo per uscire sui media.

Faranno di tutto per convogliare la protesta esclusivamente sul terreno elettorale, che è quello ad essi più congeniale e nel quale la pressione delle masse si fa sentire in modo molto più indiretto.

Se tuttavia, particolarmente di fronte a qualche misura arrogante del governo o ad altri incidenti, si generasse una spinta fra i 5 stelle a prendere la strada della mobilitazione diretta, il compito di una sinistra di classe (politica o sindacale che sia) sarebbe quello di parteciparvi in forma critica, avanzando rivendicazioni di classe e proponendo una azione comune per far cadere il governo, pur mantenendo una chiara distinzione di bandiere, di prospettiva e di programma.

2) Proprio per la paralisi della burocrazia sindacale, oltre che per il ruolo patetico della sinistra riformista, dobbiamo tracciare almeno un’ipotesi di strutturazione di un movimento di massa contro il governo. La parola d’ordine delle assemblee popolare oggi ha un carattere puramente propagandistico. Il precedente più diretto sono le assemblee popolari che si svilupparono in America Latina a partire dalla rivolta argentina del 2001. Parliamo di strutture di base, di fatto organi di un fronte unico che comprendono organizzazioni politiche, sindacali, sociali, movimenti di protesta, rappresentanze operaie, ecc.

Anche se al momento è una proposta puramente propagandistica dobbiamo avanzarla in particolare perché la paralisi delle organizzazioni di massa rende particolarmente evidente che un movimento di massa oggi può emergere solo dotandosi di proprie strutture autorganizzate. Questo è vero in genere per qualsiasi movimento autenticamente di massa, che travalica i confini degli attivisti e dei settori organizzati, ed è a maggior ragione vero nella condizione odierna.

Questa proposta non esclude che un movimento di lotta possa sorgere più direttamente dai luoghi di lavoro. Il referendum sul contratto dei metalmeccanici ci ha dato delle indicazioni su quanto sia alta la critica verso la burocrazia sindacale, in una condizione in cui è del tutto evidente che anche le strutture sindacali di base (delegati, direttivi di zona, ecc.) riflettono più la demoralizzazione della burocrazia e dei delegati ad essa più vicini, che non il reale stato d’animo nelle fabbriche.

La vittoria del NO indubbiamente avrà anche l’effetto di risollevare l’ambiente nei luoghi di lavoro, alimentando il dibattito e incoraggiando a prendere iniziative. Tuttavia nella prossima fase è più probabile che ciò avvenga senza, e spesso contro, l’apparato sindacale piuttosto che attraverso di esso.

In ogni modo la nostra proposta è rivolta a tutte le forze che si dichiarino disponibili a condurre una vera opposizione a questo governo e alle politiche di austerità, come già argomentato nel nostro articolo di bilancio del referendum.

3) La prospettiva elettorale rimane la più probabile e inevitabilmente farà gravitare tutte le spinte di opposizione attorno al M5S, particolarmente fra i giovani e nella classe operaia. Le forze della sinistra riformista verranno marginalizzate sia nei numeri che nella capacità di emergere come vera alternativa al Pd. Nonostante tutti i proclami di alternatività al Pd, il campo riformista rimane fondamentalmente legato alla prospettiva di un nuovo centrosinistra, dividendosi semmai solo sui tempi, i modi e gli interlocutori di questo progetto. Oggi la sinistra riformista è priva di tutto: non ha una dimensione di massa; non ha un profilo di classe riconoscibile; non è considerata uno strumento utile neppure come risorsa occasionale per combattere il governo. Legarci in qualche modo a questo fronte significherebbe condannarci a subirne tutti gli aspetti negativi senza godere di alcuna ricaduta positiva.

Tuttavia data l’importanza centrale della prossima campagna elettorale, è necessario che ci dotiamo di una proposta anche su questo terreno che, come già indicato, assumerà per una fase una forte centralità agli occhi delle masse e quindi anche degli attivisti che possiamo avvicinare.

La nostra proposta è quella di un fronte con quelle forze che riconoscano la necessità delle discriminanti già indicate, per una presentazione elettorale comune di opposizione di classe al Pd, all’austerità e all’Unione europea capitalista. Ad oggi questo significa rivolgerci a un campo ristretto di forze politiche e sociali, pertanto questa proposta andrà verificata alla luce dei futuri sviluppi. In particolare, sarebbe superata in avanti se organizzazioni o dirigenti con un seguito di massa decidessero di scendere apertamente in campo sul terreno politico ed elettorale. In un quadro del genere la nostra collocazione non sarebbe esterna, ma punterebbe a inserirci in un fronte di questo tipo con una tattica più vicina a quella odierna dei nostri compagni in Spagna, in Francia o in Gran Bretagna. Tuttavia tale sviluppo appare ad oggi poco probabile, in particolare se si voterà entro la metà del 2017.

Quali che siano le successive evoluzioni, il congresso consegna alla nuova direzione un mandato chiaro di elaborare la nostra tattica anche sul terreno elettorale, che non possiamo lasciare scoperto ma che rientra pienamente nei compiti dell’organizzazione nella prossima fase.

Bologna, 7 gennaio 2017

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