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Non un passo indietro. I lavoratori di Gela in lotta!

Era il 1963 quando l’Eni iniziò a guardare a Gela con interesse allo scopo di sfruttare il petrolio greggio scoperto nell’area e nel vicino ragusano.

Nel giro di pochi anni iniziarono le trivellazioni su terra e vennero aperti nel territorio stabilimenti per la produzione di gasoli, benzine, materie plastiche, ecc industrializzando la zona e impiegando migliaia di operai tra la produzione diretta e l’indotto.

Questa situazione è andata avanti fino a quando l’Eni non ha iniziato a pensare di dismettere progressivamente l’impianto per concentrarsi solamente su quelle attività che reputa più convenienti: l’esplorazione e l’estazione.

Così nel 2012 l’Eni comunica la fermata dei cicli di produzione a minore redditività per 12 mesi, una decisione che nei fatti significa mandare a casa 500 lavoratori.

Questa decisione mette in allerta la città di Gela, i lavoratori temono che si voglia chiudere tutto l’impianto.

La direzione Eni continua a negare fino a quando nel 2013 presenta ai sindacati un piano di riconversione industriale dell’area. Il piano prevedeva 700 milioni di investimenti e il cambio di produzione da benzina a gasolio; in cambio, la raffineria doveva passare da un organico di 1100 lavoratori a 700 fino al 2017.

I tagli arrivano ma gli investimenti no. Nel 2014 l’a.d. Descalzi annuncia invece che sono a rischio gli stabilimenti di Gela, Taranto, Livorno, la seconda fase di Porto Marghera e Priolo, garantendo la continuità operativa solo per la raffineria di Sannazzaro (Pavia) e per parte di quella di Milazzo.

Contro il piano Descalzi arriva la mobilitazione.

In Sicilia si teme il crollo del 7% del Pil regionale con intere aeree che dopo essere state spremute per i profitti dei petrolieri si troverebbero senza più sbocchi occupazionali.

Il 28 luglio un imponente sciopero dei lavoratori del gruppo Eni paralizza la produzione, a Gela ventimila persone sfilano in corteo.

Nella vertenza entra in gioco pure il Governo (che controlla Eni attraverso la quota azionaria di Cdp) finché il 6 Novembre 2014 azienda e sindacati firmano un accordo. Il gruppo petrolifero promette di garantire i livelli occupazionali e la conversione della raffineria in una Bioraffineria, con 2 miliardi di investimenti.

Per placare la sete di profitto del gruppo, in cambio la regione Sicilia permetterà nuove trivellazioni sia in terra che in mare. In questo modo per garantiere i profitti di Eni si lasciano distruggere dalle trivelle le coste siciliane.

Come avevamo spiegato poco prima della firma, i sindacati stavano accettando ancora una volta sacrifici per i lavoratori in cambio di vaghe promesse.

E infatti, ancora una volta Eni non mantiene gli impegni.

A marzo 2015 viene presentanto il Piano industriale Eni per il triennio 2015-18 ed è un bagno di sangue. Il cane a 6 zampe intende dismettere beni (azionari e non) per 8 miliardi di euro e tagliare gli investimenti del 17%. Continuano in particolare i tagli nel settore della raffinazione, da ridurre di un ulteriore 20% oltre al 30% di riduzione già compiuto. Questo piano industriale, peraltro, è approvato sulla base di un prezzo medio del petrolio stimato a 63 dollari al barile, mentre oggi a stento galleggia sui 30 dollari.

In questo quadro, i soldi per Gela ovviamente non si vedono. L’azienda fa finta di niente (“stiamo rispettando gli impegni”), ma i lavoratori parlano ormai della bufala della Raffineria verde.

Fa ridere poi che Eni parli di attività ecologiche, considerato che mentre faceva soldi a palate inquinava tutto: falde acquifere, mare, terreni, aria.

Da analisi del sangue fatte alla popolazione di Gela sono stati riscontrati vari veleni: rame, piombo, cadmio, mercurio e arsenico. In particolare il livello di quest’ultimo nelle urine è superiore del 1.600% a quello limite. Il rischio avvelenamento è quindi concreto ed è stato stimato che ogni anno sarebbero circa 50 le morti premature a causa della contaminazione ambientale, 281 i ricoveri per tumore e 2.700 quelli dovuti ad altre malattie sempre collegate all’inquinamento ambientale, come asma, bronchite cronica e patologie cardiovascolari.

I dirigenti Eni più volte sono stati accusati per danno ambientale ma sempre hanno risposto “che l’azienda non intende risarcire nulla”.

Nell’accordo del 2014 Eni si era impegnata anche ad avviare bonifiche, ma ovviamente, anche di quello, non si è visto niente.

Così, mentre gli ammortizzatori sociali si esauriscono e l’indotto è condannato, quando nell’ottobre scorso iniziano ad arrivare le prime lettere di licenziamento nell’indotto ripartono alcuni scioperi, ma la vera rabbia scoppia a gennaio di quest’anno in prossimità dello sciopero nazionale dei lavoratori Eni contro il piano 2015-18.

Lunedì 18 gennaio circa 2500 lavoratori, tra indotto e diretto, hanno proclamato lo sciopero ad oltranza bloccando tutti gli accessi alla raffineria e alla città. Nonostante i disagi, la solidarietà ai lavoratori è subito giunta da tutta la città. Una città che di fatto vive grazie al lavoro della raffineria e che ora progressivamente sta morendo. Ai lavoratori in protesta si sono uniti familiari, negozianti e artigiani, fino al corteo di oggi 26 gennaio, in quella che non è più solo una vertenza aziendale ma è una lotta di tutta la città.

Le autorità locali e i sindacati stanno chiedendo la convocazione di tavoli di trattative con l’Eni e invocano l’intervento del Governo. Ma perché un tavolo oggi dovrebbe dare risultati diversi da quelli già fatti nel 2011, nel 2013 e nel 2014? Il tempo gioca a favore dell’azienda, che può promettere tutti i futuri investimenti del mondo e intanto continuare con la chiusura. Questo gioco è stato permesso in questi anni sia dal governo, che pur controllando Eni ne avalla la gestione finalizzata solo a garantire dividendi agli azionisti, sia dai vertici sindacali, che hanno sempre fermato le mobilitazioni appena arrivava qualche promessa.

Dagli errori del passato bisogna imparare per prendere una strada diversa. Il blocco dello stabilimento e la riduzione del flusso del gasdotto Libia-Italia mostrano ancora una volta come siano i lavoratori ad avere nelle proprie mani le risorse dell’azienda e della rete energetica italiana. Questa forza va usata per imporre che non si perda neanche un posto di lavoro, né diretto né indiretto, che gli investimenti arrivino realmente, che le eventuali riconversioni e le bonifiche ambientali vengano davvero portate avanti. L’unico modo per essere certi che questo venga fatto è che siano i lavoratori a controllare Eni, attraverso rappresentanti eletti e revocabili democraticamente, e non un pugno di amministratori espressione del mercato e del governo.

Per questo, i lavoratori di Gela non devono cedere di un millimetro alle minacce o alle false promesse e devono coordinarsi con i lavoratori di tutto il gruppo Eni e dell’indotto, già in mobilitazione contro il piano industriale.

Sulla strategia Eni e la vertenza del 2014 vedi anche: L’Eni di Renzi taglia la produzione: dobbiamo impedirlo!

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