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Il Primo Maggio del proletariato rivoluzionario

In occasione della Festa dei lavoratori, consigliamo la lettura di questo articolo del grande rivoluzionario russo, scritto nel 1913.

 

di Lenin

 

È trascorso un anno dagli avvenimenti della Lena e dalla prima decisiva ripresa del movimento operaio rivoluzionario dopo il colpo di Stato del 3 giugno. I centoneri dello zar e i grandi proprietari fondiari, la banda dei funzionari e la borghesia hanno celebrato il terzo centenario del saccheggio, delle incursioni da tartari, che hanno disonorato la Russia, ad opera dei Romanov. Si è riunita e ha iniziato il suo «lavoro», senza averne fiducia essa stessa e avendo perduta la passata energia controrivoluzionaria, la IV Duma. Lo smarrimento e la noia si sono impadroniti della società liberale che rimastica stancamente appelli alle riforme e nello stesso tempo riconosce l’impossibilità persino di una parvenza di riforme.

E d’un tratto il Primo maggio della classe operaia della Russia che, con la prima prova a Riga, e poi con una energica azione il Primo maggio, secondo il vecchio calendario, a Pietroburgo, ha come un fulmine, in un’atmosfera cupa, offuscata e malinconica, squarciato l’aria. Davanti a centinaia di vecchi rivoluzionari, che non sono stati ancora annientati né piegati dalle persecuzioni dei carnefici e dal tradimento degli amici, davanti a milioni di democratici e socialisti della nuova generazione, si sono di nuovo posti, in tutta la loro grandiosità, i compiti della futura rivoluzione e si sono delineate le forze della classe d’avanguardia che la dirige.

Già alcune settimane prima il governo aveva perso completamente la testa, e i signori industriali si erano comportati come persone del tutto fuori senno. Sembrava che gli arresti e le perquisizioni avessero messo sottosopra tutti i quartieri operai della capitale. La provincia non era restata indietro rispetto al centro. I fabbricanti erano scombussolati, convocavano riunioni, lanciavano parole d’ordine contraddittorie, ora minacciando punizioni e serrate, ora cedendo fin da principio e
acconsentendo a chiudere le fabbriche, ora istigando il governo ad efferatezze, ora rimproverandolo e invitandolo a inserire il Primo maggio nei giorni «festivi» del calendario.

Ma, per quanto la gendarmeria si sia adoperata, per quanto essa abbia «epurato» i sobborghi industriali, per quanto abbia arrestato a destra e a sinistra in base ai suoi ultimi «elenchi delle persone sospette», nulla è servito. Gli operai hanno riso della rabbia impotente della cricca zarista e della classe dei capitalisti, hanno fatto dell’ironia sugli «avvisi» minacciosi e meschini del governatore delle città, hanno scritto e hanno passato di mano in mano o hanno trasmesso oralmente versi satirici e si sono procurati, come da sotto terra, sempre nuove manciate di «manifestini» stampati male, brevi e semplici, ma convincenti, che contenevano appelli allo sciopero e alla dimostrazione e ricordavano le vecchie, integre parole d’ordine rivoluzionarie della socialdemocrazia, la quale aveva diretto nel 1905 il primo assalto delle masse contro l’assolutismo e la monarchia.

Centomila scioperanti il Primo maggio, scriveva il giorno seguente la stampa governativa. Centoventicinquemila, annunciavano i giornali borghesi, secondo le prime informazioni telegrafiche (Kievskaia Mysl). Centocinquantamila ha telegrafato da Pietroburgo il corrispondente dell’organo centrale della socialdemocrazia tedesca. Il giorno seguente già tutta la stampa borghese riportava la cifra di 200-220 mila. Il numero degli scioperanti ha di fatto toccato la cifra di 250 mila!

Ma, oltre al numero degli scioperanti, ancor più imponenti e ancora più significative sono state le dimostrazioni di strada rivoluzionarie degli operai nel Primo maggio. Al canto di inni rivoluzionari, con grida che facevano appello alla rivoluzione, in tutti i sobborghi della capitale e in tutti gli angoli della città la folla operaia, le bandiere rosse spiegate, ha lottato per alcune ore con decuplicate energie contro le forze della polizia comune e di quella politica mobilitate dal governo. E gli operai hanno saputo far sentire ai più zelanti tra i giannizzeri dello zar che la lotta era seria, che davanti alla polizia non c’era un pugno di futili slavofili, della gentucola [1], ma che effettivamente si erano sollevate le masse della classe lavoratrice della capitale.

La dimostrazione aperta delle aspirazioni rivoluzionarie del proletariato e delle sue forze rivoluzionarie, temprate e rinvigorite dalle nuove generazioni, dagli appelli rivoluzionari al popolo e ai popoli della Russia, è riuscita in verità magnificamente. Se l’anno scorso il governo e gli industriali potevano consolarsi dicendo che non si sarebbe potuto prevedere lo scoppio della Lena e prepararsi immediatamente alla lotta contro le sue conseguenze, ora la monarchia aveva potuto prevedere nel modo più preciso, il tempo per prepararsi era stato il più lungo, erano state prese le «misure» più «energiche» e, come risultato, è stata rivelata pienamente l’impotenza della monarchia zarista di fronte al risveglio rivoluzionario delle masse proletarie.

Si, l’anno della lotta degli scioperi dopo gli avvenimenti della Lena ha dimostrato, nonostante i meschini lamenti dei liberali e dei loro tirapiedi contro la «mania degli scioperi», contro gli scioperi «sindacalisti», contro l’unione dello sciopero economico con quello politico e viceversa, quest’anno ha dimostrato che il proletariato socialdemocratico si era temprata, nel periodo rivoluzionario, una grande e insostituibile arma per la propaganda tra le masse, per il loro risveglio, per attrarle alla lotta. Lo sciopero di massa rivoluzionario non ha concesso al nemico né riposo, né una scadenza, gli ha anche arrecato un danno materiale, ha calpestato, davanti a tutto il mondo, il prestigio politico del sedicente «forte» governo zarista, ha dato a sempre nuovi strati di operai la possibilità di ricuperare almeno una piccola parte delle conquiste del 1905 e ha attratto alla lotta nuovi strati di lavoratori, conquistando i più arretrati. Esso non ha esaurito le forze degli operai, essendo stato sempre e dappertutto un’azione dimostrativa di breve durata, ma ha contemporaneamente preparato nuove azioni aperte delle masse, sotto forma di dimostrazioni di strada, ancor più imponenti e rivoluzionarie.

In nessun paese del mondo si è visto nell’ultimo anno un tale numero di partecipanti a scioperi politici come in Russia, una tale tenacia, una tale varietà ed energia degli scioperi. Già solo questa circostanza ci mostra tutta la grettezza, tutta la spregevole ottusità di quei saggi liberali e liquidatori i quali volevano «correggere» la tattica degli operai russi degli anni 1912-1913 adeguandola al metro dei periodi costituzionali «europei», soprattutto dei periodi di lavoro preparatorio per l’istruzione socialista e l’educazione delle masse.

Poiché l’enorme superiorità degli scioperi russi sugli scioperi dei paesi europei più avanzati non dimostra affatto che gli operai russi abbiano particolari qualità o particolari capacità, ma soltanto che nella Russia attuale vi sono particolari condizioni, esistendo in essa una situazione rivoluzionaria e il maturarsi di una immediata crisi rivoluzionaria.

Quando in Europa si avvicinerà un momento analogo di maturazione della rivoluzione (e sarà una rivoluzione socialista, e non democratica borghese come da noi), il proletariato dei paesi più capitalistici svilupperà un’energia incomparabilmente maggiore negli scioperi rivoluzionari, nelle dimostrazioni e nella lotta armata contro i difensori della schiavitù salariata.

Lo sciopero di maggio di quest’anno, come i molti scioperi dell’ultimo anno e mezzo in Russia, ha un carattere rivoluzionario, a differenza non soltanto dei soliti scioperi economici, ma anche degli scioperi dimostrativi e degli scioperi politici con richieste di riforme costituzionali, come per esempio, l’ultimo sciopero in Belgio [2]. Gli uomini affascinati dalle concezioni liberali, e che hanno disimparato a vedere le cose dal punto di vista rivoluzionario, non possono in alcun modo capire questa peculiarità degli scioperi russi, determinata interamente dalla situazione rivoluzionaria del paese. Il periodo della controrivoluzione e dell’imperversare di stati d’animo rinunciatari ci ha lasciato in retaggio troppi di questi uomini, anche tra coloro che vogliono chiamarsi socialdemocratici.

La Russia sta attraversando una fase rivoluzionaria poiché l’oppressione della grandissima maggioranza della popolazione, e non solo del proletariato, ma anche dei nove decimi dei piccoli produttori, soprattutto contadini, si è inasprita al massimo grado; inoltre questa oppressione inasprita, le carestie, la miseria, l’assenza di diritti, l’oltraggio contro il popolo sono in stridente disaccordo con le condizioni delle forze produttive della Russia, con il grado di coscienza e lo spirito rivendicativo delle masse, risvegliate dal 1905, e con la situazione in tutti i paesi vicini, non solo europei, ma anche asiatici.

Ma questo è ancora poco. La sola oppressione, per quanto grande essa sia, non sempre crea una situazione rivoluzionaria in un paese. In gran parte, per la rivoluzione non è sufficiente che le classi inferiori non vogliano vivere come prima. Occorre anche che le classi dominanti non possano spadroneggiare e governare come prima. È proprio ciò che vediamo attualmente in Russia. La crisi politica sta maturando davanti agli occhi di tutti. La borghesia ha fatto tutto ciò che era in suo potere per appoggiare la controrivoluzione e dar vita, su questo terreno controrivoluzionario, a «uno sviluppo pacifico». Essa ha largito quanti soldi volevano ai carnefici e ai feudali, ha denigrato la rivoluzione, si è staccata da essa, si è prostrata davanti ai Purisckevic e alla frusta di Markov 2°, trasformandosi in lacchè di costoro, ha creato le teorie all’«europea» che gettano fango sulla rivoluzione pseudo «intellettuale» del 1905 e la definiscono peccaminosa, ladresca, antistatale, ecc. ecc.

E nonostante abbia sacrificato il suo denaro, il suo onore e la sua coscienza, la borghesìa stessa, dai cadetti agli ottobristi, riconosce che l’assolutismo e i grandi proprietari fondiari non hanno potuto assicurare uno «sviluppo pacifico», non hanno potuto assicurare le condizioni elementari dell’«ordine» e della «legalità», senza le quali nel XX secolo un paese capitalistico non può esistere accanto alla Germania e alla nuova Cina.

La crisi politica su scala nazionale in Russia è presente, e inoltre è una crisi che intacca proprio le basi della struttura dello Stato e non qualche suo particolare, intacca le fondamenta dell’edificio e non questa o quella costruzione annessa, non questo o quel piano. E per quanto i nostri liberali e liquidatori vadano snocciolando vuote frasi sul tema che «da noi, grazie a Dio, c’è la Costituzione» e che all’ordine del giorno ci sono queste o quelle riforme politiche (solo persone molto limitate non capiscono lo stretto legame della prima tesi con la seconda), per quanto fluisca questa acquetta riformistica la situazione non cambia e fa si che né un solo liquidatore, né un solo liberale possano indicare qualsiasi via di uscita riformistica.

E le condizioni delle masse popolari in Russia, e l’aggravarsi della situazione dì queste masse con la nuova politica agraria (alla quale, come all’ultima possibilità di salvezza, hanno dovuto afferrarsi i grandi proprietari fondiari feudali), e le condizioni internazionali, e il carattere della crisi politica generale che si è creata da noi costituiscono la somma delle condizioni obiettive che rendono rivoluzionaria la situazione della Russia, situazione dovuta all’impossibilità (per il governo e per le classi sfruttatrici) di risolvere i compiti della rivoluzione borghese seguendo sempre la stessa via e con gli stessi metodi.

Questo è il terreno sociale, economico e politico, questo è il rapporto fra le classi in Russia che ha generato da noi scioperi originali impossibili nell’Europa attuale, dalla quale i rinnegati di ogni tipo desiderano prendere a prestito l’esempio non delle rivoluzioni borghesi di ieri (con bagliori della rivoluzione proletaria di domani), ma della «Costituzione» odierna. Ma l’oppressione delle classi inferiori e la crisi della classe dominante non suscitano ancora la rivoluzione; producono soltanto la putrefazione di un paese, quando in questo manchi una classe rivoluzionaria, capace di trasformare lo stato passivo di oppressione in stato attivo di sdegno e di insurrezione.

E proprio il proletariato industriale svolge questa funzione di classe effettivamente d’avanguardia, che effettivamente solleva le masse alla rivoluzione, effettivamente è capace di salvare la Russia dalla putrefazione. Esso adempie questo compito con i suoi scioperi rivoluzionari. Questi scioperi, che i liberali detestano e i liquidatori non comprendono, sono (usando le parole della risoluzione di febbraio del POSDR) «uno dei mezzi più efficaci per vincere l’apatia, la disperazione e la dispersione del proletariato agricolo e dei contadini… per farli partecipare ad azioni rivoluzionarie il più possibile compatte, simultanee ed estese» . La classe operaia trascina nelle azioni rivoluzionarie le masse dei lavoratori e degli sfruttati, prive dei diritti elementari e ridotti alla disperazione. Essa le prepara alla lotta rivoluzionaria, le educa all’azione rivoluzionaria, spiega loro dov’è e in che cosa consistono la via di uscita e la salvezza; le educa non con le parole ma con i fatti, con l’esempio, e per di più non con l’esempio di avventure di eroi isolati, ma con l’esempio dell’azione rivoluzionaria di massa, che unisce rivendicazioni politiche ed economiche.

Come sono semplici, comprensibili e vicine queste idee a ogni onesto operaio che abbia assimilato anche solo i rudimenti della dottrina del socialismo e della democrazia! E come sono estranei ai traditori intellettuali del socialismo e ai traditori della democrazia, i quali sui giornali liquidatori denigrano o deridono l’«illegalità» assicurando agli ingenui sempliciotti che anch’essi sono «socialdemocratici».

La celebrazione del Primo maggio del proletariato di Pietroburgo, seguito da tutto il proletariato russo, ha dimostrato una volta di più e in modo chiaro, a chi abbia occhi per vedere e orecchie per sentire, il grande significato storico dell’illegalità rivoluzionaria nella Russia attuale. L’unica organizzazione di partito del POSDR a Pietroburgo, il Comitato della città, ha costretto – sia prima della celebrazione del Primo maggio, sia prima del 9 gennaio e prima del terzo centenario dei Romanov, sia il 4 aprile 51 – persino la stampa borghese a rilevare che i manifestini del Comitato di Pietroburgo sono apparsi ripetutamente nelle fabbriche e nelle officine.

Questi manifestini costano enormi sacrifici. A volte si presentano male. Alcuni di essi, per esempio gli appelli alla dimostrazione del 4 aprile, indicano l’ora e il luogo della dimostrazione in sei righe, composte, evidentemente, di nascosto e con estrema fretta in tipografie diverse e con caratteri diversi. Da noi ci sono uomini (sedicenti «socialdemocratici») che, alludendo a queste condizioni di lavoro della «clandestinità» chiedono, sghignazzando malignamente o atteggiando le labbra a disprezzo: «Se la clandestinità fosse tutto il partito, quanti membri conterrebbe allora? Due o tre centinaia» (cfr. il n. 95 [181] dell’organo di stampa dei rinnegati, il Luc, nella difesa redazionale del signor Sedov, che ha il triste coraggio di essere un liquidatore dichiarato. Questo numero del Luc è uscito cinque giorni prima della celebrazione del Primo maggio, cioè proprio quando l’organizzazione illegale stava preparando i manifestini).

I signori Dan, Potresov e soci, che scrivono queste cose vergognose, non possono ignorare che già nel 1903 migliaia di proletari erano nel partito, e nel 1907, 150.000, e che ora migliaia e decine di migliaia di operai pubblicano e diffondono manifestini illegali, quali membri delle cellule illegali del POSDR. Ma i signori liquidatori sanno che la «legalità» stolypiniana li protegge da una smentita legale della loro vile menzogna e dei loro ancor più vili «lazzi» a proposito della illegalità.

Guardate fino a che punto si sono allontanati dal movimento operaio di massa, e dal lavoro rivoluzionario in generale, questi meschini individui! Prendete pure il loro metro manifestamente falsificato per far piacere ai liberali. Ammettete per un minuto che «due o tre centinaia» di operai abbiano a Pietroburgo preso parte alla preparazione e alla diffusione di questi manifestini illegali.

Che cosa ne consegue? Che «due o tre centinaia» di operai, il fiore del proletariato di Pietroburgo, uomini che non soltanto si chiamano socialdemocratici, ma lavorano da socialdemocratici, uomini per questo rispettati e apprezzati da tutta la classe operaia russa, uomini che non vanno «blaterando» di «un largo partito», ma che costituiscono di fatto l’unico partito illegale socialdemocratico esistente in Russia, questi uomini preparano e diffondono manifestini illegali. I liquidatori del Luc ridono sprezzantemente (protetti dai censori di Stolypin) di queste «due o tre centinaia», della «clandestinità», dell’«esagerazione» della sua importanza, ecc.

E all’improvviso, oh! miracolo! Per una risoluzione redatta da cinque o sette membri della commissione esecutiva del Comitato di Pietroburgo, su invito di un manifestino preparato e distribuito da «due o tre centinaia» di persone, si levano come un sol uomo duecentocinquantamila persone a Pietroburgo.

Questi manifestini e i discorsi rivoluzionari degli operai nei comizi e nella dimostrazione non parlano del «partito operaio legale» né della «libertà di coalizione» e di simili riforme mediante i miraggi delle quali i liberali deridono il popolo. Essi parlano della rivoluzione come dell’unica via d’uscita. Parlano della repubblica come dell’unica parola d’ordine, la quale, come contrappeso alla menzogna liberale sulle riforme, indica il mutamento che garantisce la libertà, indica le forze capaci di levarsi consapevolmente in sua difesa.

Tutta Pietroburgo, con i suoi due milioni di abitanti, vede e sente questi appelli alla rivoluzione, che si imprimono profondamente nel cuore di ogni lavoratore e di ogni ceto oppresso. Tutta Pietroburgo vede, da un esempio reale e di massa, in che consiste la via d’uscita e in che consiste la menzogna delle chiacchiere liberali sulle riforme. Le mille forme di collegamento degli operai e centinaia di giornali borghesi, costretti a parlare, sia pur saltuariamente, della celebrazione rivoluzionaria di Pietroburgo, diffondono per tutta la Russia la notizia della tenace lotta, attraverso gli scioperi, del proletariato della capitale. E questa notizia degli scioperi, delle rivendicazioni rivoluzionarie degli operai, della loro lotta per la repubblica e per la confisca della terra dei grandi proprietari fondiari a favore dei contadini, perviene alle masse contadine e all’esercito contadino. Lentamente, ma sicuramente, lo sciopero rivoluzionario scuote, sveglia, prepara e organizza le masse popolari per la rivoluzione.

«Due o tre centinaia» di militanti clandestini esprimono gli interessi e le necessità di milioni e decine di milioni di uomini, dicendo loro la verità sulla loro situazione disperata, aprendo loro gli occhi sulla necessità della lotta rivoluzionaria, ispirando loro fiducia in essa, dettando loro parole d’ordine giuste, strappando queste masse all’influenza delle parole d’ordine riformiste della borghesia, che promettono molto e sono completamente menzognere. E «due o tre decine» di liquidatori intellettuali, ingannando gli operai arretrati con il denaro raccolto all’estero e tra i mercanti liberali, introducono nell’ambiente operaio le parole d’ordine di questa borghesia.

Lo sciopero di Maggio, come tutti gli scioperi rivoluzionari degli anni 1912 e 1913, ci mostra in modo evidente che la Russia attuale è divisa in tre campi politici. Il campo dei boia e dei feudali, della monarchia e della polizia politica. Esso ha fatto tutto ciò che ha potuto, ma è ormai impotente contro le masse operaie. Il campo della borghesia che, tutta, dai cadetti agli ottobristi, grida e geme, invitando alle riforme e dichiarandosi essa stessa «minchionata» per aver ammesso l’idea della possibilità di riforme in Russia. Il campo della rivoluzione che, unico, esprime gli interessi delle masse oppresse.

Soltanto la socialdemocrazia illegale, che sa sfruttare ogni possibilità legale proprio secondo lo spirito di questa socialdemocrazia, legata indissolubilmente con la classe d’avanguardia, il proletariato, conduce tutto il lavoro ideale e politico in questo campo. Nessuno può dire in anticipo se questa classe d’avanguardia riuscirà a guidare le masse fino alla rivoluzione vittoriosa. Ma il suo dovere di condurre le masse verso questa via di uscita, essa lo adempie, nonostante tutte le titubanze e i tradimenti dei liberali e dei sedicenti socialdemocratici. Tutto ciò che c’è di vivo e di vitale nel socialismo russo e nella democrazia russa si educa esclusivamente sull’esempio della lotta rivoluzionaria del proletariato e sotto la sua direzione.

La celebrazione del Primo maggio di quest’anno ha mostrato a tutto il mondo che il proletariato russo avanza fermamente sul proprio cammino rivoluzionario, al di fuori del quale non c’è salvezza per la Russia che sta soffocando e putrefacendosi mentre è ancora in vita.

Sozìal-Demokrat, n. 31, 15 (28) giugno 1913

da Lenin, Opere Complete, vol. 19, Editori Riuniti, Roma, 1967, pp. 198-206

Note:

1) Il 17, 18 e 24 marzo 1913 ebbero luogo manifestazioni slavofile organizzate a Pietroburgo da elementi nazionalistici reazionari in occasione delle vittorie serbo-bulgare sui turchi nella prima guerra balcanica. Questi elementi cercavano di sfruttare la lotta di liberazione nazionale dei popoli balcanici nell’interesse della guerra imperialsitica di rapina dello zarismo russo nel Medio Oriente.

2) Lo sciopero generale nel Belgio si svolse il 14-24 aprile 1913. Il proletariato belga esigeva una riforma costituzionale, il suffragio universale. Allo sciopero presero parte 400-450 mila operai su più di un milione. Nella Pravda venne sistematicamente data notizia dell’andamento dello sciopero, e furono pubblicati comunicati sulle offerte degli operai russi a favore degli scioperanti.

3) Cfr. nella presente edizione vol. 18 p. 437.

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