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La questione catalana e la confusione della sinistra

Il movimento delle masse catalane per l’autodeterminazione, straordinario per i numeri, la partecipazione e l’organizzazione messa in campo, non solo incute terrore alle borghesie di tutta Europa, è anche incomprensibile nelle stanze sempre più anguste e misere della sinistra nostrana, che hanno scelto di attaccarlo e demonizzarlo.

Il panico è aumentato mano a mano che la partecipazione popolare aumentava, che la gestione del referendum sfuggiva dalle mani della Generalitat e passava nelle strade e nei comitati di difesa del referendum. L’intervento dei portuali e dei pompieri ha mostrato il ruolo che può giocare la classe operaia in questo movimento.

La giornata del primo ottobre con la repressione feroce dello Stato spagnolo e la reazione di decine di migliaia di lavoratori e giovani a difesa dei seggi rimarrà per sempre nelle nostre coscienze. Nonostante il pugno di ferro di Madrid, la chiusura forzata di centinaia di seggi e i manganelli delle “forze di occupazione”, due milioni e duecentomila persone hanno espresso il loro voto. L’eroismo delle masse catalane ha svelato il vero volto, spietato, dello Stato capitalista.

Eppure l’editoriale de il Manifesto del giorno successivo definiva il referendum un “fallimento”, paragonandolo al referendum sull’autonomia del lombardo-veneto ed infine definendo lo scontro in Spagna quello tra due destre.

L’errore commesso è quello più grave, per coloro che in prima pagina si fregiano ancora (del tutto indebitamente) della qualifica di “quotidiano comunista”: quello di scambiare la rivoluzione per la reazione, di definire un movimento progressista come reazionario.

La difesa della autodeterminazione

Lo Stato borghese spagnolo è nato sulla base della negazione dei diritti della nazione catalana, basca, galiziana. Queste nazionalità sono state private di ogni diritto durante il franchismo: non solo era proibito esibire in pubblico la propria bandiera, ma anche parlare la propria lingua, celebrare le proprie festività e tramandare i propri usi e costumi. La Costituzione del 1978 si basa sulla conservazione di questo principio. Ha mantenuto intatto l’apparato dello Stato franchista e la monarchia come garante della continuità, sebbene con una verniciata di democrazia e di autonomia regionale, per renderli digeribili ai dirigenti del movimento operaio. Il Partido popular (negli anni ‘70 Alianza popular) è stato fondato da Manuel Fraga, ministro del governo di Francisco Franco!

Mettere in discussione la Costituzione del 1978 è dunque un passo in avanti nella lotta di classe. La nascita di una repubblica catalana assesterebbe un colpo molto duro all’architettura del regime postfranchista. L’intervento in diretta televisiva del Re Felipe VI dimostra che quest’ultimo non è un soprammobile nel sistema istituzionale ma ne costituisce un asse portante, pronto a scendere in campo quando sia necessario. Come capo delle Forze armate può assumere tutti i poteri in un colpo di Stato che avrebbe tutti i crismi della legalità “costituzionale”.

Non c’è bisogno di leggere le opere complete di Marx e Lenin: anche alle scuole medie ci insegnano che una repubblica è meglio di una monarchia…

La crisi catalana rivela la vera natura delle Costituzioni, queste “leggi fondamentali” che servono a mantenere salda al potere la classe dominante. Chi di queste Costituzioni fa un feticcio e si erge a difensore della loro inviolabilità non fa altro che mettersi al servizio della classe dominante stessa.

Come la Jugoslavia?

Sentiamo già gli strepiti del riformista di turno: “Ma allora, volete che la Spagna finisca come la Jugoslavia, distrutta dalla guerra civile!”. All’epoca, la separazione di Slovenia e Croazia fu il grimaldello usato dall’imperialismo per la transizione al capitalismo in Jugoslavia. In quel passaggio storico, lo slogan dell’autodeterminazione aveva un significato reazionario, perché indeboliva la classe lavoratrice e spalancava le porte alla restaurazione del capitalismo.

Oggi il referendum per l’autodeterminazione della Catalogna è stato il mezzo attraverso il quale si è espressa la radicalizzazione delle masse. Una repubblica catalana indebolirebbe il capitale, in Spagna e a livello internazionale. Ed infatti, i poteri forti, compresi Trump, la Banca mondiale, l’Fmi e perfino il Papa sono contro l’indipendenza catalana.

Ulteriore prova è il fuggi fuggi verso Madrid di tutte le multinazionali che hanno sede a Barcellona. Se fosse un semplice scontro tra due borghesie, perché mai una di esse sceglierebbe di passare armi e bagagli dall’altra parte?

Alcuni sostengono che l’indipendenza della Catalogna non è da sostenere perché non è una nazione oppressa, anzi i catalani sono ricchi e privilegiati: insomma, un po’ come i “padani”. Ricordiamo, en passant, che in Catalogna (come anche in Lombardia e in Veneto) esistono ancora le classi e la ricchezza è appannaggio dei banchieri e dei capitalisti.

La posizione marxista sul diritto all’autodeterminazione non si basa sul coefficiente di benessere di un determinato popolo. Il marxismo definisce una nazione quell’entità evolutasi storicamente con una lingua e un territorio comuni, una storia e una cultura condivise, unita infine da solidi legami economici. Da tale definizione consegue che garantire il diritto all’autodeterminazione significa assicurare un diritto democratico basilare.

Il marxismo non basa la sua posizione solo su una lotta dei popoli “poveri” contro i popoli “ricchi”, ma la inquadra nel contesto della lotta di classe, sia all’interno di un paese che a livello internazionale. Quando Marx ed Engels appoggiavano la lotta per l’indipendenza dell’Irlanda dall’Impero britannico, la consideravano una lotta progressista soprattutto perché indeboliva l’imperialismo inglese, che era considerato come il nemico principale. L’indipendenza irlandese avrebbe rafforzato il proletariato inglese.

Per accelerare lo sviluppo sociale d’Europa, è necessario operare per la catastrofe dell’Inghilterra ufficiale. A questo fine, bisogna attaccarla in Irlanda. È questa il suo punto vulnerabile. Perduta l’Irlanda, è l’“Impero” britannico a crollare, e la lotta di classe in Inghilterra, fino ad oggi sonnolenta e cronica, assumerà forme acute.” (Marx a Paul e Laura Lafargue, L’Irlanda e la questione irlandese, pag. 275, ediz. Progress, 1975)

Oggi la lotta per la repubblica catalana è progressista perché, oltre a indebolire la borghesia di Madrid, sferra un colpo formidabile all’Unione europea che è il bastione principale dell’imperialismo oggi nel continente.

L’Unione europea

Qual è per i riformisti il ruolo da assegnare all’Unione europea? Secondo un appello firmato dai segretari dei principali partiti della sinistra che fu (dal titolo: “È un affare europeo”) sarebbe quello di mediatore internazionale nello scontro tra Madrid e Barcellona. “Europa, aiutaci tu!”, è il coro ripetuto da Ada Colau, da Unidos podemos e da tutta la sinistra europea. Peccato che Bruxelles abbia già scelto, e si sia schierata con Rajoy.

L’Ue non è un organo di mediazione. È lo strumento dell’imperialismo delle principali potenze europee (con in testa la Germania) e delle grandi multinazionali del continente. Difende precisi interessi, come dimostrato in innumerevoli occasioni: il più recente e clamoroso quello in Grecia dopo la vittoria dell “Oxi” al referendum del luglio 2015. Non era interessata alla democrazia allora come non lo è oggi.

Tutti questi appelli a sinistra hanno inoltre un tratto comune. Cercano una terza via tra “l’intransigenza di Madrid e l’irresponsabilità di Barcellona”. Vorrebbero azzerare la situazione e tornare allo status quo ante, alla situazione precedente all’inizio dello scontro. Ma ciò non è possibile: ogni compromesso è saltato, la borghesia di Madrid (e quella internazionale) non accetta alcuna mediazione, contempla solo la capitolazione di Barcellona.
Una “nuova normalità” si potrebbe raggiungere solo dopo la sconfitta di uno degli schieramenti in lotta.

E inoltre, su cosa si basava “la normalità” della Spagna dal 1978 ad oggi? Sul dominio di una nazionalità sulle altre, sull’oppressione nazionale dei catalani, dei baschi, dei galiziani… Un equilibrio fondato su una disparità che nessun comunista, e nessun autentico democratico, dovrebbe sostenere. In ultima analisi, dunque, chi chiede una terza via, il realismo e si oppone alla dichiarazione di indipendenza della Catalogna si schiera oggettivamente dalla parte di Rajoy e del grande capitale.

Un ritorno alle “piccole patrie”?

Allora, voi siete per la separazione degli Stati esistenti, per il ritorno alle “piccole patrie”? Lasciamo rispondere Lenin:

Accusare i sostenitori della libertà di autodecisione, vale a dire della libertà di separazione, di incoraggiare il separatismo, è altrettanto sciocco e ipocrita quanto accusare i sostenitori della libertà di divorzio di incoraggiare la disgregazione dei legami familiari. Come nella società borghese coloro che insorgono contro la libertà di divorzio sono i difensori dei privilegi e della venalità che sono alla base del matrimonio borghese, così nello Stato capitalistico la negazione della libertà di autodecisione, cioè di separazione, equivale soltanto alla difesa dei privilegi della nazione dominante e dei metodi polizieschi di governo a detrimento di quelli democratici.” (L’autodecisione della nazioni, Editori riuniti, 1976, pag. 88)

Solo lottando assieme ai popoli oppressi per questo basilare diritto democratico si potranno porre le basi per un’unione libera fra i popoli. Un vero internazionalismo si potrà realizzare solo quando sarà eliminata l’oppressione di una nazione sull’altra e gli Stati non saranno delle “prigioni” per le minoranze nazionali. Una vera unione fra i popoli può crearsi solo su basi volontarie, democratiche e paritarie.

C’è poi chi ha dato un’occhiata a ciò che scriveva Lenin e giura di essere a favore del diritto dell’autodeterminazione dei popoli. Però, nel caso della Catalogna c’è un problema: la direzione è borghese! “Il 1° ottobre non ci sarà un referendum di autodeterminazione visto che la Generalitat non ha la capacità di implementare il prevedibile risultato.”… e quindi si invita a non partecipare al referendum!

Questa posizione è difesa dai Comunisti catalani – Partito comunista dei popoli di Spagna (Pcpe), l’organizzazione sorella del Partito comunista di Marco Rizzo.

È assolutamente vero, il Presidente della Generalitat, Puidgemont, è esponente di un partito borghese, il PdeCat. Lo stesso Puidgemont, tuttavia, è stato spinto dal movimento di massa molto più in là delle proprio intenzioni. Infischiarsi di un movimento di massa, voltargli le spalle, solo perché non risponde ai requisiti previsti da un (ipotetico) manuale, significa semplicemente lasciare nelle mani della borghesia (e in questo caso della piccola borghesia) le redini del movimento stesso.

Molto raramente i comunisti scelgono il terreno dove si sviluppa la lotta di classe. In Catalogna questo terreno è il referendum. Attorno ad esso si è sviluppata una mobilitazione e una autorganizzazione dal basso che ha travalicato completamente il significato originario del referendum stesso.

I marxisti in Catalogna e in Spagna sono stati al fianco delle masse, non solo con una difesa astratta e generica dei loro diritti democratici e dello slogan di Lenin, ma anche applicandolo in maniera concreta, con la scelta di voto. I nostri compagni non hanno difeso un Sì fine a se stesso, ma lo hanno collegato alla parola d’ordine “Per una repubblica socialista catalana, scintilla della rivoluzione iberica”, sottolineando l’obiettivo primario della conquista della maggioranza della classe operaia di tutto lo Stato spagnolo alla causa catalana.

La borghesia catalana vacillerà, capitolerà? È del tutto probabile, e lo stiamo vedendo in questi giorni, ma non possiamo sostituire una prospettiva all’esperienza concreta che faranno le masse. Dobbiamo accompagnarle nella loro presa di coscienza, avvertendole del probabile tradimento dei vari Puidgemont e Màs e offrendo loro un’alternativa rivoluzionaria e di classe. L’esito della mobilitazione non è già definito dalle volontà e dall’incapacità della sua direzione borghese.

Come spiegava Lenin, nel prezioso scritto già citato: “Per la borghesia è soprattutto interessante la ‘realizzabilità’ di una data rivendicazione, donde l’eterna politica di transazioni con la borghesia delle altre nazioni, a danno del proletariato. Al proletariato, invece, importa soprattutto il rafforzamento della propria classe contro la borghesia e l’educazione delle masse nello spirito della democrazia coerente e del socialismo.” (op. cit., pag. 74)

Un banco di prova

Gli avvenimenti in Catalogna dimostrano che la difesa dei più elementari diritti democratici come quello dell’autodeterminazione e addirittura quello di voto possono essere conquistati solo attraverso una lotta rivoluzionaria che metta in discussione il sistema capitalista. Rivendicazioni democratiche e rivendicazioni sociali sono indissolubilmente legate nell’epoca attuale. I marxisti diventano così gli unici veri difensori di quei diritti che né la borghesia né i riformisti hanno intenzione di tutelare.

I movimenti di massa mettono alla prova ogni organizzazione. I rivoluzionari accolgono con gioia una mobilitazione come quella in Catalogna che ha implicazioni rivoluzionarie. Intervengono con esse con tutto il loro entusiasmo, comprendendone la natura contraddittoria e lavorano per costruire un’avanguardia in grado di condurre la mobilitazione alla vittoria e all’abbattimento del capitalismo. I riformisti invece guardano alla lotta di massa con terrore, perché mette in discussione quel sistema capitalista che vogliono difendere. Il loro ruolo è un ostacolo alla vittoria delle classi sfruttate.

L’esperienza catalana ci insegna che la costruzione di un’organizzazione rivoluzionaria, che faccia dell’indipendenza di classe e della critica implacabile al riformismo la propria bussola, è oggi decisiva per il futuro dell’umanità. È un compito che come Tendenza marxista internazionale facciamo nostro.

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