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Bologna si mobilita: chiediamo servizi, ci danno repressione

“Adesso basta!” Questo è stato il grido che molti studenti dell’ateneo di Bologna hanno lanciato in questi giorni, in risposta all’ennesimo tentativo da parte delle istituzioni accademiche di militarizzare la zona universitaria.

Tutto comincia con l’installazione da parte delle istituzioni dell’ennesimo dispositivo di controllo all’ingresso della Biblioteca di Discipline Umanistiche (al 36 di Via Zamboni). Le assemblee lanciate da alcuni militanti sono partecipate, ma coinvolgono solo gli utenti più assidui della biblioteca: la rivendicazione iniziale è la pura e semplice difesa di uno spazio di studio e socialità vissuto da una cospicua, ma minoritaria, fetta di studenti. La solidarietà alla lotta stenta, in una prima fase, ad uscire dal portone del “36”.

Ciò nonostante le istituzioni, come molte altre volte, si sentono in dovere di tagliare la testa ad ogni minimo dissenso, sferrando un attacco definitivo contro i pochi attivisti; ma fanno male i loro calcoli.

La situazione precipita, infatti, quando il rettore autorizza l’intervento della celere per sgomberare l’aula studio, precedentemente occupata da alcuni studenti per renderla disponibile dopo la serrata delle istituzioni universitarie. La repressione furibonda genera un ampio rifiuto: vedere cinquanta agenti in tenuta antisommossa penetrare rabbiosi in un’aula occupata, manganellando studenti indifesi intenti a leggere, è visto come un affronto inaccettabile. Questa indignazione porta alle partecipate manifestazioni di del 10 e 11 febbraio, dove si vede il desiderio di capire le ragioni profonde della situazione.

Prima del corteo dell’11 abbiamo anche lanciato un’assembea in Piazza Verdi, un primo tentativo di sviluppare spazi di discussione e analisi su cui costruire l’alternativa, con una presenza crescente durante la discussione.

Cosa c’è alla base del disagio sociale

Col pretesto del degrado hanno riempito la zona universitaria di telecamere, accessi controllati a biblioteche e bagni, guardie giurate e polizia, creando uno stato di intimidazione permanente, senza riuscire minimamente a porre un freno allo spaccio, alla tossicodipendenza, al disagio sociale.

Sappiamo, infatti, che microcriminalità e tossicodipendenza sono un portato della povertà dilagante, della criminalizzazione delle fasce deboli della popolazione (ad es. con il reato di clandestinità e la legge Fini-Giovanardi) e dei tagli al welfare.

Mentre si spendono soldi per inutili dispositivi repressivi, le risorse per il welfare universitario e cittadino vengono limitate: niente più luoghi di riduzione del danno per la tossicodipendenza, riduzione dell’assistenza psicologica universitaria, niente più possibilità per gli studenti di avere un medico di base aggiuntivo a quello del luogo di residenza, definanziamento dei centri anti-violenza, meno personale nelle biblioteche e aumento del lavoro interinale e sottopagato.

I responsabili del degrado possiamo dunque trovarli non nelle strade, ma nelle stanze del potere. Il sindaco Merola, sentenzia contro i movimenti di lotta, mentre sforna delibere in cui permette lo sgombero dei luoghi di aggregazione autogestiti, sostiene la speculazione edilizia, in cui promuove l’ingresso dei privati nella gestione delle biblioteche comunali e dei servizi essenziali.

Uscire dall’isolamento: generalizzare le lotte

Quello che vediamo in questi giorni è solo un primo esempio della partecipazione politica che vedremo prossimamente. La necessità è quella di inserire la lotta contro la repressione all’interno di un più ampio programma per il diritto allo studio.

Denunciamo il fatto che la “messa in sicurezza” delle aule studio sia finanziata, in parte, dalla Fondazione del Monte (legata a Unicredit), mentre i servizi di portineria saranno gestiti da Coop Service, azienda famosa per i salari da fame con cui paga i lavoratori interinali. Con la riforma Gelmini del 2010 l’università italiana e’ stata aperta ai privati dai quali è sempre più succube a causa dei continui tagli agli stanziamenti statali, giustificati con il rimborso degli interessi sul debito pubblico alle stesse banche che da allora spadroneggiano nelle decisioni d’ateneo. I tornelli servono a contabilizzare e “razionalizzare” gli accessi ai locali dell’università così che Unicredit etc. possano capire a quale dipartimenti destinare i fondi, in base alle loro esigenze economiche.

Solo spiegando come tali dispositivi si inseriscano nello stesso processo di tagli e privatizzazione dell’istruzione pubblica si potranno convincere sempre più studenti ad attivarsi in un movimento di massa che richieda un’università gratuita, pubblica, laica e di qualità.

Studenti e lavoratori, insieme per difendere servizi e spazi pubblici

Ancora troppo poco si è fatto, inoltre, per coinvolgere i lavoratori dell’ateneo in questa vertenza, difendendo il loro diritto alla sicurezza e portando avanti un’analisi comune dei problemi che affliggono la zona universitaria. Troppo spesso l’atteggiamento da parte di alcuni attivisti nei confronti dei lavoratori non ha permesso di affrontare la questione in maniera inclusiva, puntando a raggiungere un fronte di lotta comune contro i disservizi.

Rivendichiamo un piano di nuove assunzioni, che comprenda l’internalizzazione di tutti i lavoratori liberandoli dal ricatto della precarietà e dello sfruttamento a cui li costringono Coop Service, Ellior (per il servizio mensa) e simili.

Dobbiamo rivendicare:

-dimissioni del Questore e del Rettore subito!

-uscita dei privati e delle banche dall’università, nell’interesse delle quali Rettore e Questore hanno fatto manganellare gli studenti!

-più servizi e fondi statali all’istruzione pubblica che deve essere gratuita, laica, di qualità e di massa!

-rifiuto del pagamento del debito pubblico usato come giustificazione delle privatizzazioni e dei continui tagli, che non toccano solo l’istruzione, ma anche la sanità e il welfare in generale!

Quello che dobbiamo rivendicare è un programma di trasformazione radicale di questo sistema sociale che ha da offrirci solo miseria e disperazione!

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